C'è una cambiale alla radice dell'America, diceva Martin Luther King: la vita, la libertà, la ricerca della felicità. Ma che cosa succede se ci si ritrova tra le mani solo un assegno a vuoto? "Don't do to me what you did to America", invoca Sufjan Stevens. Suona come l'ultima preghiera sulle ceneri di quel sogno. Perché non c'è niente di peggio di una promessa cui non si riesce più a credere.
Tutto è cominciato da lì, da "America". Il brano chiamato ad anticipare l'uscita di "The Ascension", lasciato nel cassetto da Stevens fin dall'epoca di "Carrie & Lowell": un presagio di quello che avrebbero portato gli ultimi cinque anni, una visione che ha dettato la strada per il resto dell'album. All'inizio è un gemito che prende forma attraverso gli echi di pulsazioni sintetiche. L'ansito dei respiri, lo spleen inconfondibile delle tastiere. Poi, però, si trasforma in qualcosa di completamente diverso: una cavalcata cosmica che va a disperdersi in una nebbia di ectoplasmi.
Difficile dare un seguito a un caposaldo del decennio appena trascorso come "Carrie & Lowell" (e all'appendice cinematografica di "Call Me By Your Name"). Dopo aver preso tempo con una serie di progetti collaterali, Stevens decide di ribaltare la prospettiva: dall'interno all'esterno, dall'introspezione alla realtà. "Non voglio scrivere altre canzoni sulla morte di mia madre. Voglio scrivere canzoni che diano un giudizio sul mondo".
Complice il trasloco da Brooklyn ai monti Catskill, Stevens baratta così banjo e chitarra per sintetizzatori e drum machine: elettronica solipsistica, un po' come ai tempi di "The Age Of Adz". Ma con una differenza fondamentale: se dieci anni fa Stevens sembrava sognare una sorta di impossibile sinfonia electro, ora è della sua personale via al pop che è in cerca.
Che cos'è infatti "Video Game" se non un esercizio di scrittura della pop song perfetta? Il beat marcato, la melodia sinuosa, il luccichio delle tastiere che sa di retrofuturismo anni Ottanta alla "Stranger Things"... Stevens ne fa una sorta di invettiva contro la dittatura del like ("I don't wanna be the center of the universe"), salvo poi affidare il video a una star di TikTok come Jalaiah Harmon: "Un video di ballo sul non voler essere protagonisti di un video di ballo", per dirlo con le sue parole.
D'altra parte, pop significa semplificazione. Ed è proprio a questo che mira Stevens, per parlare del presente che lo circonda: l'immediatezza dello slogan, la forza del proclama. "Modi di dire e frasi di tutti i giorni, ma che per me hanno un'eco e una saggezza molto più grandi". Può persino annunciare senza imbarazzo che l'amore è la risposta, sulle note di una ballata romantica come "Tell Me You Love Me". Nonostante la lunghezza e la discontinuità, "The Ascension" risulta alla fine più a fuoco di "The Age Of Adz" proprio grazie al suo desiderio di dire le cose in maniera diretta.
Tutti i brani, confessa Stevens, giocano fin dal titolo con qualche cliché, a partire dalla chiamata alle armi di "Make Me An Offer I Cannot Refuse", tra battiti e glitch che lasciano subito il posto alla consueta grandeur del songwriter americano. A volte è un prestito dalle pagine di Joan Didion, come per l'addio a New York di "Goodbye To All That": un viaggio in macchina che suona quasi come una riedizione di "Chicago", un trionfo di riverberi e campanelli che va a finire direttamente tra i momenti più riusciti del disco. A volte è più prosaicamente "Guerre stellari", che in "Death Star" fa da pretesto per una sarabanda di clangori robotici. Persino la citazione di una battuta de "L'armata delle tenebre" ("Gimme some sugar, baby") può trasformarsi in tutt'altro: la metafora di un bisogno di nutrimento spirituale, magari, come nell'ombrosa orecchiabilità che sboccia dal lungo preludio di "Sugar".
Dice di essersi ispirato alle sonorità di "Rhythm Nation" di Janet Jackson, Stevens. Forse, a parità di periodo storico, a questo giro è più debitore del Peter Gabriel degli anni Ottanta/Novanta. Tra la giaculatoria di "Die Happy" (metà misticismo e metà dancefloor) e la caleidoscopica schizofrenia di "Ursa Major", l'unica apertura alla confessione folk arriva in chiusura, con il ritorno alle tinte più intime della title track. Riscattando almeno in parte qualche passaggio fin troppo confuso nel corpo centrale del disco.
Sufjan si guarda intorno, e quello che vede è soprattutto paura: "The fear of life/ That seeks to bring despair within", canta sulla ritmica morbida di "Run Away With Me". La paura di chi è prigioniero della solitudine, del risentimento, della sfiducia. E insieme alla paura, il desiderio di ritrovare una qualche forma di comunione con gli altri: "A new communion/ With a paradise that brings/ The truth of light within".
Non siamo diversi da quelli che ci hanno preceduto, in questo: dall'alba dei tempi ci dibattiamo intorno al grande mistero dell'alterità. Indietro lungo la spirale della storia, l'indietronica di "Gilgamesh" risale fino all'epopea della terra tra i due fiumi: c'era una volta un eroe che scoprì l'amicizia lottando con la sua nemesi; c'era una volta un eroe che scoprì la mortalità raccogliendo l'ultimo respiro dell'amico. "Oh, my heart receives you now/ With arms full of harvest". Nati nell'estraneità, eppure fatti da sempre per la fratellanza di un destino comune. Il sogno americano, quello vero, non è altro che questo. Proprio come diceva il dottor King.
28/09/2020