Come se già le ventidue tracce di un album complesso e articolato come "Illinois" non fossero sufficienti a rendere l'idea della sua straordinaria prolificità creativa, a un anno esatto di distanza, Sufjan Stevens consegna alle stampe un'altra ingente mole di brani tratti dalle intense sessioni di registrazione di quel lavoro e poi esclusi dall'uscita ufficiale, una volta abbandonata l'idea di fare di "Illinoise" un doppio comprendente quasi cinquanta tracce.
"The Avalanche" non è quindi un album vero e proprio e, come tale, sfugge in parte a quell'idea di concept che ha quasi sempre ispirato le produzioni del suo autore; ma va da subito avvertito come non debba per questo essere considerato alla stregua di una semplice raccolta di "scarti", buona sola per riempire lo spazio tra un album e l'altro, essendo piuttosto un'ulteriore testimonianza dell'esuberanza della scrittura di Stevens, oltre che della naturalezza con la quale è in grado di conferire ai suoi brani una pluralità di vesti sonore, rielaborandone con grande versatilità gli stili e le componenti strumentali. Non solo i ventuno brani qui compresi sono il frutto di nuovi arrangiamenti e sostanziali modifiche apportate su quelli "scartati" un anno fa, ma tra essi non possono di certo passare inosservate le ben tre versioni di "Chicago", che balzano subito all'occhio alla semplice lettura della tracklist di questa raccolta, molto diverse tra loro e tutte ben distanti da quella edita in "Illinois": a fronte di un medesimo approccio armonico di base, infatti, il brano viene dapprima presentato in una splendida veste acustica, scarna e intimista ("Acoustic Version"), poi declinato dando libero sfogo alla passione per il modernariato easy-listening , coniugando reminiscenze sixties e ariosi arrangiamenti che vanno dal jazz orchestrale fino a certe elaborazioni degli ultimi Tortoise ("Adult Contemporary Easy Listening Version"), infine tradotto in una obliqua versione elettrica, studiatamente sbilenca ("Multiple Personality Disorder Version").
Per il resto, oltre agli ormai consueti interludi strumentali, come sempre sospesi tra dilatazione evocativa ed eccentricità, "The Avalanche" ripropone inevitabilmente quasi tutti gli elementi di "Illinois": si passa così agevolmente dalle sbarazzine cadenze lounge di "Dear Mr. Supercomputer", che, in un'ideale continuazione di "Prairie Fire That Wanders About", sembra la godibilissima riproposizione in una prevalente chiave acustica del geniale pop degli Stereolab, alle stravaganti divagazioni elettriche di "Springfield, Or Bobby Got A Shadfly Caught In His Hair" e "The Undivided Self (For Eppie And Popo)", all'abbondanza di fiati in arrangiamenti ricchissimi e dal ricorrente gusto old-fashion , ma come sempre alieno da troppo facili tentazioni nostalgiche ("The Henney Buggy Band", "Carlyle Lake", "No Man's Land").
Tuttavia, dimessa almeno in parte quella certa grandiosità da musical che impregnava alcuni episodi di "Illinois", Stevens dimostra ancora una volta di trovarsi particolarmente a proprio agio nelle semplici ballate acustiche dal sapore bucolico, i cui elementi sono ormai tanto distintivi della sua personalità artistica da poter tranquillamente definire "alla Sufjan Stevens" brani dalle simili caratteristiche. In esse, si alternano in maniera mirabile tocchi di banjo, coretti gioiosi, una voce appena sussurrata ("The Avalanche", "Adlai Stevenson", "Pittsfield") e un soffuso intimismo di grande e delicata raffinatezza ("The Mistress Witch From McClure (Or, The Mind That Knows Itself)", "Saul Bellow").
Insomma, anche in un album inevitabilmente asistematico e con tutta probabilità destinato a rimanere minore nella sua discografia, Stevens finisce per mettere sul tappeto tutte le sue enormi qualità di scrittura e interpretazione, dimostrandosi del tutto incapace di creare qualcosa di non altamente qualitativo e confermando, proprio attraverso questo materiale "di risulta", la florida vivacità della sua ispirazione.
10/07/2006