I love my dreams, God knows I do
and some of them love me
But I’m no match for waking life
and it’s no match for me
Siamo alle solite. Quando non si accontenta di affollare il proprio sterminato catalogo con l’ennesima raccolta di inediti già nati classici, o di avventurarsi in qualche ardita collaborazione che finirà, tanto per cambiare, col dargli ragione su tutta la linea, Will Oldham non trova nulla di meglio da fare che rileggere frazioni più o meno significative del suo stesso repertorio. Lo aveva fatto con profitto dieci anni fa, togliendo la polvere al canzoniere degli esordi (“Sings Greatest Palace Music”), per poi replicare in sordina nel 2012 (l’Ep “Now Here’s My Plan”) e di nuovo oggi con ritrovato smalto.
Ultimo oggetto delle sue rivisitazioni è il pur recente “Wolfroy Goes To Town”, i cui disadorni bozzetti (buona parte della scaletta e un paio di B-side) risultano così profondamente arricchiti che questo nuovo “Singer’s Grave A Sea Of Tongues” suona quasi come un album di cover ad opera dei Lambchop (le registrazioni con Mark Nevers a Nashville, la pedal steel di Paul Niehaus e l’organo di Tony Crow la dicono lunga in tal senso), che cresce di tono in progressione. Ancora un cambio di passo, insomma, dopo il back to basics della precedente fatica eponima.
Parte alquanto serafico il Nostro, moderata velocità di crociera, delicate fragranze traditional e quel proverbiale senso di meraviglia, trattenuta ma contagiosa, che scalda l’atmosfera poco alla volta in una prospettiva amabilmente conviviale. Ma anche quando pare riaffacciarsi l’impostazione del pauperista, con la prodigiosa qualità evocativa di cui Will è capace, anche quando le canzoni si mostrano apparentemente dimesse, il Principe sa sempre come accenderle. A folate e senza strafare, con i giusti cromatismi assicurati ora da violini pungenti ora da un pianoforte remissivo, un rinforzo corale o lo strappo che non ti aspetti.
I ritmi blandi sono per lui terreno d’elezione, non è certo una novità. Ideali per le esplorazioni in solitaria ma addirittura clamorosi quando in cima ai suoi propositi vi sia il rivestire pur umilmente i brani. E’ quanto avviene in “It’s Time To Be Clear”, tanto per menzionare un titolo emblematico.
Rispetto alla radicalità intimista degli originali, tutti giocati in sottrazione su contrasti mai esasperati, e sul mirabile senso di pieno nel vuoto, i nuovi arrangiamenti ricavano il massimo calore possibile dalla misura, offrono ulteriore nerbo all’inconfondibile tenore dello statunitense e alle sue liriche impressioniste, testimoniando nel contempo la versatilità di una scrittura che sa essere incisiva a più dimensioni, dai garbati incontri cantati alla nudità sostanziale, dall’ipnosi della quiete agli eleganti accomodamenti espressivi.
Il risultato è quindi un disco assai diverso dal modello. In comune restano il superbo cesello della chitarra di Oldham, la perizia nel controllo – tanto formale quanto emotivo – oltre al piacere impagabile nell’accostamento chiassoso delle tinte, come quando il verde spento del Naturalismo folk si arrende alla vitalità giallo-arancio del country più sgargiante. Ancora un sabotaggio dei meccanismi chiave dell’Americana per quanto condotto in maniera persino più sottile del consueto, merito di un ensemble rinnovato (a eccezione del fido Emmett Kelly) il cui tocco rasenta lo stesso velluto delle più partecipate tra le precedenti incarnazioni del musicista di Louisville.
Ancora una volta l’impronta elettrica riesce a tirare fuori il meglio dalle canzoni di Bonnie Prince Billy, peraltro bellissime anche in modalità claustrale. E ancora una volta il protagonismo gentile del capomastro rinuncia ad andare sopra le righe e fa da collante illuminando tutta la scena. Anche negli episodi più animati come “Old Match”, la caciara resta un’eventualità non contemplata, annullata con classe dalla perfezione dietro ogni incastro: la sacra fiamma dell’armonia è l’antidoto di sempre per scongiurare l’effetto diorama di uno stanco, inutile revival. Certo, sarebbe assurdo negare al passato il peso specifico che queste nuove versioni tradiscono così platealmente. Basterebbe la sola “We Are Unhappy”, un gioiello che il banjo assicura ancor più alle radici mentre le sorelle Ann e Regina McCrary, rimpiazzi di Angel Olsen e ancore di rispetto nell’oceano della tradizione, spostano il registro dalla cruda essenzialità a un anomalo gospel bianco.
Un album placidamente reazionario, quindi, questo “Singer’s Grave A Sea Of Tongues”, ma tutt’altro che tedioso. Tra le sue pieghe Oldham dà lustro al proprio piglio affabulatorio (“Mindlessness”) e si conferma autentico maestro di cantautorato aromatico (si ascoltino i due inediti che chiudono i giochi o “So Far and Here We Are”, affilata e lineare come le ballate dell’amico Alasdair Roberts), abilissimo nell’armeggiare con stilemi risaputi – vivificandoli – e nel saltabeccare liberamente tra i generi con le stimmate del riformatore silenzioso. E’ quel che fa da oltre vent’anni, in fondo, e gli è sempre riuscito a meraviglia. Che si trattasse di inediti o delle cover di se stesso.
28/10/2014