Prima di inserire nel lettore questo album sarebbe opportuno: essere degli appassionati di ballate folk della tradizione britannica; amare la musica acustica che non disdegna deviazioni di attitudine stonata/psichedelica tipo Incredibile String Band e Syd Barrett; non essere impazienti e non rompere col "dono della sintesi" che qui, spesso, manca, trattandosi di materiale che "decanta" come il buon vino; conservare un'insana mania per il mondo fantasy, da Tolkien ai cavalieri della tavola rotonda; essiccare sostanze stupefacenti nel mezzo di un vecchio libro di canti di marinai del XVII° secolo; simpatizzare per quel misterioso buontempone di Will Oldham, il quale suona, canta e produce questo lavoro. Se pensate di possedere anche alcuni di questi requisiti andate pure avanti e premete senza indugi "play", godendovi i racconti del novello bardo del Duemila, venuto a bussare alla vostra porta con la leggiadria antica del suo dulcimer. Alasdair Roberts è un cantautore trentenne di origine tedesca ma di padre scozzese: cresce nelle campagne incontaminate e mitologiche vicino al villaggio di Callander. Qui impara a suonare la chitarra, cantare e scrivere canzoni. Da metà anni Novanta assume il moniker Appendix Out, nomigliolo col quale produce un sette pollici casalingo con la consueta logica lo-fi di registrazione a quattro piste in voga (allora come adesso).
Con il trasferimento a Glasgow arriva il contratto con la Drag City e la possibilità di far seguire all'esordio altri due dischi, suonati con musicisti conosciuti nella capitale, pregni di sonorità legate, pian piano, alle radici folk britanniche. L'unicità della proposta vale ad Alasdair l'ammirazione di alcuni grandi outsider della canzone come Jason Molina (aka Songs:Ohia, suona con lui in una manciata di singoli) e l'accoppiata Rian Murphy e Sean O'Hagan che producono il terzo album su Secretly Canadian. Nel 2001 arriva l'esordio col nome di battesimo, "The Crook Of My Harm" in cui il Nostro mostra di abbracciare in pieno il progetto revivalista, con dodici ballate per sola voce e chitarra. L'anno successivo arriva il bis con "Farewell Sorrow", suonato da una band per metà inglese e per metà americana, ma stavolta confezionato con canzoni originali, col doveroso riguardo a oscure e antiche origini mai del tutto dimenticate. Per "No Earthly Man" Roberts ha deciso di tornare sul luogo del delitto. Ed è proprio il caso di dirlo, visto che le otto, lunghe ballate presenti raccontano di avvelenamenti, infanticidi, vascelli affondati, amori perduti, canti funebri. A questo punto Will Oldahm deve aver rizzato le antenne ed essersi precipitato, in groppa al suo Superwolf, attraverso il mare per conoscere l'anima gemella di tanto spleen.
Il disco, arrangiato con una nutrita schiera di personaggi comprimari (tra i quali spicca il violoncello angelicato di Isobel Campbell) risulta essere il più radicale, in senso roots, mai prodotto dal cantautore. Chitarre acustiche, violini, arpe, percussioni: "No Earthly Man" poteva essere un disco dei Fairport Convention o dei Pentangle, sfuggito a un epoca (fine anni 60, primi 70) tendenzialmente più aperta alla rivalutazione/ripescaggio di materiale perso negli scaffali delle biblioteche. Il tema della morte e del tragico, seppure presente, è trattato in maniera mai lamentosa o autocommiserante, al contrario: c'è una gioia celebrativa tutta da scoprire tra i solchi, la stessa che animava le locande isolane tanto tempo fa. Non aspettatevi rock ed elettricità (per quello ci sono le ristampe dei Pogues, o magari i Moving Hearts), bensì melodie che crescono lentamente, per accumulazione di elementi intorno alla voce cupa e nasale di Roberts, fiera di quelle "erre" così antiamericana.
Esemplare in questo senso l' incipit "Lord Ronald", ma anche episodi dal minutaggio meno poderoso come l'allegra (?!) "Admiral Cole", il violino di "On The Banks Of Red Roses" o la cantilena "Sweet William", che pare uscita da un disco solista di John Renbourn. Alasdair ci presenta il tutto con la sapienza del filologo e la voglia di mescolare fonti irlandesi, inglesi e naturalmente scozzesi. Unico neo, lo sbadiglio che potrebbe colpire chi è poco assuefatto a questo genere di alchimie sonore.
Il nome Oldham è comunque garanzia di qualità, se non specchio indie per le allodole e cinquantenni/esseri millenari del folk. Un ultimo consiglio: invitate un po' di amici patiti come voi di "Dungeons & Dragons" e organizzate una bella partita in soffitta. Una mezza dozzina di candele, birra fresca e reti da pesca alle pareti. Mettetevi accanto alla ragazza con cui da tanto ci provate e ammiccatele, tra un tiro di dadi e l'altro. La colonna sonora, gentilmente offerta da "No Earthly Man", farà il resto. Sarà un successo, vedrete. E se vi dà buca, potrete sempre prendervela con Alasdair. O al limite con Bonnie 'Prince' Billy.