Da diverso tempo l'Islanda non è più un territorio sconosciuto e dimenticato dal mondo. A cavallo del terzo millennio il fascino paesaggistico dell'isola al confine col circolo polare artico, già noto agli esperti escursionisti, ha raggiunto il grande pubblico proprio attraverso la musica indipendente della nuova generazione, in particolare Björk e i Sigur Rós. Questi ultimi hanno letteralmente aperto le porte della loro patria nel viaggio di “Heima”, capolavoro musical-documentario che dipinge alla perfezione la quiete domestica di questa terra magica dove il tempo e la civilizzazione si sono fermati al momento giusto.
Assieme al collega Jóhann Jóhannsson, divenuto famoso con le colonne sonore per il cinema, Ólafur Arnalds è ormai il compositore islandese più noto della scena neoclassica, pubblicato da un marchio prestigioso come Mercury Classics. Ma non appena raggiunto (meritevolmente) il traguardo della notorietà, Arnalds sembrava aver lasciato un po' da parte il delicato minimalismo degli esordi su Erased Tapes, tentando di dar forma a opere di più ampio respiro ("For Now I Am Winter") o recuperando la tradizione romantica ("The Chopin Project" con Alice Sara Ott). Ora egli stesso riconosce che la sua vera vocazione è quella di raccontare in musica la realtà geografica e umana da cui proviene: il modo migliore per riavvicinarla era mettersi in viaggio e lasciarsi ispirare sul momento, raccogliendo le sensazioni evocate dai diversi contesti in altrettanti piccoli brani strumentali, occasionalmente cantati o recitati.
Sette tracce per sette giorni, uno a settimana: un “album” nel vero senso, dunque, minuto e fortemente personale, ma anche umile nel lasciare che siano altri soggetti a divenire protagonisti della rappresentazione e non mere comparse; ritratti e affreschi tutt’altro che esaustivi, come brevi tappe di un treno che a ogni stazione si ferma pochi minuti per catturarne i diversi scorci in videoclip spogli ma intensamente poetici.
Proprio con il componimento “Árbakkinn” (argine), scritto e recitato da Einar Georg Einarsson, si inaugura questo intimo viaggio a Nord del mondo: parole il cui significato i nativi coinvolti hanno preferito celare, sottolineando la musicalità fonetica con la quale descrivono i suoni di un fiume, locato nei pressi della fattoria in cui il poeta è cresciuto. Nell’interno giorno, in un’atmosfera da capanna alpina, l’inquadratura arretra lentamente a mostrare i musicisti disposti intorno, tessitori di una melodia dal pathos già portato all’estremo.
I single take audiovisivi, memori dello sguardo ieratico e pietoso di Béla Tarr sulla miseria umana, ci conducono in piccole chiese disadorne, ove un coro siede tra strette panche di legno e altari coperti di pizzo (“Raddir”), o al sèguito di due bambini che si rincorrono nella nebbia lungo praterie bagnate dalle prime gocce di pioggia (“1995”); nelle modeste abitazioni non sempre c’è posto per tutti, così che una pur ridotta sezione di ottoni si trova a suonare oltre i vetri di una finestrella (“Dalur”). Nel candore di un moderno locale soppalcato, l’ensemble da camera si dispone sui gradini di una scala mentre Nanna Bryndís Hilmarsdóttir (Of Monsters And Men) presta il suo canto angelico a “Particles”, malinconica astrazione di energie e colori che si mescolano con grazia:
But these heavy hands
They’re pulling me down on my chest
Latching on, coloring all of my flesh
Quietly, you hover over me
And I fight but it feels like wasted time
L’epilogo di “Doria” è una vibrante sintesi post-minimalista affidata agli arpeggi fluttuanti di un pianoforte meccanico, al quale si uniscono nuovamente le linee di archi e i più decisi accordi di Arnalds, ombra onnipresente e discreta che ha voluto legare tra loro le identità di quello che è un vero luogo dell'anima, oltre che la propria “casa” diffusa e condivisa da una popolazione dove nessuno è davvero estraneo all'altro.
Di certo non possiamo dire che l'idea alla base del progetto sia di prima mano, dato l'illustre precedente in veste post-rock; stesso discorso per la forma musicale, che al di là del linguaggio consolidato del compositore islandese intrattiene in molti casi, come per osmosi, un dialogo stilistico coi congeneri Frahm, Jóhannsson e Richter. Per contro, la totale assenza di artificio e la sincera volontà di omaggiare le meraviglie di questo Eden tra i ghiacci non lasciano dubbi su un esito artistico che da subito si dimostra accorato e commovente.
28/10/2016