Doveva succedere. D'altronde arriva sempre per ogni trasformista il momento in cui è necessario riporre costumi e maschere e presentarsi nudi di fronte al pubblico, l'essenza dietro all'artificio. Non che si arrivi a estremi simili, ma dopo un decennio speso a elaborare concept sempre più complessi, Annie Clark getta via ogni travestimento e torna a essere sé stessa. Cosa significa questo? Sicuramente tornare all'urlo creativo, alla forza primordiale di un cantautorato obliquo ma irresistibile, quello che in "Marry Me" lasciò immediatamente intravedere tutto il carattere di una delle principali interpreti dell'ultimo ventennio di indie statunitense. Per la prima volta in carica della produzione di un suo lavoro, con "All Born Screaming" la musicista sfilaccia gli stretti legami estetici delle sue ultime prove e riscopre il potere bruciante della libertà, lasciando che sia l'emozione, la forza delle sue esperienze, a prevalere su ogni altro aspetto. È un'attesa boccata d'ossigeno, per quanto respirata con non poco dolore.
In mezzo al nero più fondo, St. Vincent brucia, in preda a fiamme che divorano le sue braccia: non poteva esserci immagine più adatta, rappresentazione più icastica di un lavoro senz'altro disinvolto, contrassegnato però da un'aura mortifera, da un senso di minaccia incombente pronto ad abbattersi su ogni singolo brano. Non è quindi un caso che "Hell Is Near" sia l'invito, il passaggio obbligato da cui accedere nel nuovo universo firmato Annie Clark. Con un taglio melodico che pare avviarsi sulla scia di Enya, la musicista fa presto a disperdere l'andamento serafico in un bagno di rimpianto e amarezza, la perdita a concretizzarsi in un vaso di calendule. Con una struttura a fasi, dominata dapprima da basso e una dodici corde byrdsiana, successivamente dai synth e dal pianoforte, il brano forza la penna di Clark verso una direzione di desolato abbandono, una tragica sincerità che la successiva "Reckless" offre a dose raddoppiata. Dapprima concepita come marcia funebre, un commovente requiem imbevuto di ricordi, la canzone deflagra in una rabbiosa coda sintetica, furia sludgy che denota il più totale smarrimento.
Un simile dinamismo, che sia intra- o inter-canzone, aleggia lungo tutto l'arco dell'ascolto; in un disco che sfrutta finalmente l'esperienza chitarristica di Clark come non avveniva dai tempi di "Strange Mercy", l'effetto è quello di un ottovolante nei meandri del torbido, ammorbidito però da una compassione che ha del rincuorante. Sensuale in apertura, riottosa nell'evoluzione, "Broken Man" si avvale della competenza alla batteria di Dave Grohl (compare anche nella successiva "Flea", l'amore visto come un'inevitabile infezione) e tira fuori una scarica adrenalinica dalle tinte industriali, un personale omaggio al rock anni 90, vulnerabile quanto basta per crepare la coriacea scorza dell'arrangiamento. Il passo funky di "Big Time Nothing", sviluppato su una base che prende da vicino "Army Of Me" di Björk, frulla l'esperienza con David Byrne in un prisma schizoide e coinvolgente (qualcuno ha detto Foetus?), capace di sputare fuori tutta la tragica alienazione dell'individuo contemporaneo. Che sia così ipnotica nel suo snocciolare divieti come fossero i dieci comandamenti, depone soltanto a suo favore.
E non finisce di certo qui. "Violent Times" sfrutta il celebre motivo bondiano di "Goldfinger" incanalandolo in un serrato alveo meccanico; nel mentre Clark abbonda nei manierismi vocali, scopre la sua Shirley Bassey interiore giocando sull'onda di un dramma che pare montare e montare. È solo l'antipasto di un lato B che riflette su morti reali (la sfortunata dedica a SOPHIE in "Sweetest Fruit", già fonte di polemiche e di accuse da parte dei fan più accaniti della producer) e apocalissi eventuali (la metropolitana del terrore di "The Power's Out") senza parsimonia emotiva, sul filo di un abisso a cui diventa impossibile sottrarsi.
Superando l'inspiegabile siparietto reggae di "So Many Planets", unica nota davvero stonata della raccolta, ha perfettamente senso che la chiusura venga affidata alla title track. In compagnia di Cate Le Bon, che qui si propone anche come bassista, ribadisce la struttura bipartita dell'inferno introduttivo e chiude il cerchio con un ostinato corale che interrompe bruscamente la gioviale atmosfera wave iniziale. Come se l'urlo fosse una condanna e allo stesso tempo il conforto, St. Vincent suggella il suo ultimo progetto senza reali soluzioni, dimostrando però che sotto i costumi pulsa un cuore che non ha paura di presentarsi in tutta la sua complicata umanità. Tanto può bastare.
01/05/2024