In un panorama globale dominato sempre più dal formato-singolo (specialmente se breve e conforme ai “diktat” di mamma Spotify) riuscire a smerciare due milioni di copie di un proprio album è impresa da celebrarsi, con tutti i crismi del caso. Non se ti chiami Taylor Swift, però, e con tale risultato certifichi il tuo peggior risultato di vendite di sempre. A quel punto, correre ai ripari è un attimo, e pianificare la prossima mossa diventa una questione di primaria importanza. “Fallita” la venture più aggressiva e urban di “Reputation”, la popstress statunitense rientra in alvei a lei più familiari, abbracciando una dimensione più distesa e solare, in linea con la svolta sintetica intrapresa con “1989”.
Ben oltre il ritorno al country da molti paventato (quando non atteso), “Lover” è la conferma di un passaggio a una dimensione pop sventagliata senza alcun timore, che qui trova pieno sfogo in un album-fiume di diciotto tracce, piegato a una ritrovata serenità nel quotidiano dell'autrice. A giudicare dai risultati ottenuti in pochissimi giorni, la scelta è già un successo strepitoso.
Occorre mettere in chiaro sin da ora che sia nel complesso, sia scendendo a considerare ciascuno dei vari brani, i picchi negativi toccati dal precedente disco fortunatamente qui non sussistono. Neanche i due singoli di lancio diffusi negli scorsi mesi, il caramelloso motivetto dai toni disneyani rispondente al titolo di “ME!”, come il confuso tentativo di commento anti-sessismo e omofobia incluso nelle cadenze minimali di “You Need To Calm Down”, riescono nell'impresa, peccando piuttosto in ingenuità ed eccessiva smielatezza.
Se è vero che il ritorno ai toni più pacati e sentimentali di un tempo rende difficili certe maldestre inclinazioni urban, nondimeno è l'approdo a una produzione nuovamente curata che restituisce un'immagine più convincente e decisa, tale da sopperire anche a diversi momenti melodicamente sottotono. Complice la collaborazione del factotum Jack Antonoff (già alla corte di St. Vincent, Lorde e Carly Rae Jepsen), il sound trova una nuova brillantezza, escogita soluzioni curiose, quasi impensabili in precedenza per un disco di Swift. Dalle fattezze synth-ambient di “The Archer” (tra i pezzi forti del suo canzoniere), strutturate a organizzarsi in un inesorabile crescendo sonico, passando per le peculiari fattezze folktroniche di “It's Nice To Have A Friend”, il disco è disseminato di idee singolari, trova un'ottima varietà sonora che spezza la stucchevolezza espressiva dell'autrice.
Certo, non tutti gli esperimenti godono di egual fortuna (“Paper Rings” a simulare con tutta la fiacchezza del caso il pop-punk della prima Avril Lavigne), e qualche concessione al passato si muove tra estrema prevedibilità (la dedica alla madre malata nel manierato country-pop di “Soon You'll Get Better”, in compagnia delle redivive Dixie Chicks) e un senso melodico del tutto raffazzonato (la strofa à-la Mazzy Star della title track, che sfocia in un ritornello a dir poco sheeraniano). Anche in questa apologia dello sdilinquimento, “Lover” centra una manciata di pezzi che testimoniano come con un pizzico di infantilismo in meno la penna di Swift sarebbe capace di cose quantomeno dignitose.
Dalle cadenze très Lana Del Rey di “Miss Americana & The Heartbreak Prince”, passando per lo snello melodismo di “Cruel Summer” (co-scritta assieme a St. Vincent), vi è del materiale di buona fattura incluso nel disco. Troppo poco, però, per redimere un album ancora chiuso in pruriginose turbe tardo-adolescenziali e dedito nuovamente a confettosi dissing senza alcuna cattiveria (il brano d'apertura, ulteriore pegno a Ed Sheeran). Indubbiamente i numeri certificano la giustezza delle scelte di Taylor Swift, per quanto tempo ancora però potrà improvvisarsi teenager fuori tempo massimo?
29/08/2019