Che ci piaccia o meno, bisogna dar credito a Ed Sheeran per aver coniato una delle più fortunate formule d'oro del pop contemporaneo. Nel giro di pochi anni, e con due soli album di studio alle spalle, questo ragazzone anglosassone dallo sguardo timido e impacciato è passato da fare busking nella metropolitana di Londra a totalizzare sold-out a Wembley vendendo milioni di dischi in tutto il mondo - e senza mai dover snaturare il suo rassicurante approccio voce/chitarra.
Ma l'immagine da cantautore alla portata di tutti è solo nei suoi simpatici modi di fare, perché dal punto di vista prettamente musicale ascoltare questo suo terzo album significa fare un (ennesimo) viaggio nel più paraculo pop emotivo da classifica generalista, di quello che va bene per ogni momento e ogni stagione, ma che poi alla fine non soddisfa mai fino in fondo. In questo Sheeran è ormai il Re assoluto, e ha già creato una discreta fila di adepti, da James Bay e Jack Garrat fino al Rag'n'Bone Man.
La sua abilità sta tutta nella furbizia con cui mette in piedi le proprie canzoni. Le melodie suonano istintivamente familiari dopo meno di venti secondi di ascolto, gli arrangiamenti sono calibrati al dettaglio e mai eccessivi, ma sapientemente zeppi di mini-loop accalappia-orecchie. Non c'è mai un pelo fuori posto, insomma, questo è vero e proprio artigianato pop, nato da anni di esperienza e da un orecchio fin troppo allenato. All'occasione si sa pure svecchiare, andando ad adagiarsi sui ritmi tropical che stanno dettando legge oltreoceano - vedasi il fortunatissimo singolo di lancio "Shape Of You" (che in molti hanno associato a "Mountain O'Things" di Tracy Chapman).
Rimane una domanda: chi è davvero Ed Sheeran? L'unico accenno autobiografico si sente sull'apertura di "Eraser", pezzo dall'imbarazzante andazzo rap dove Ed racconta del suo recente spaccato di vita, travolto da soldi, adulazione, stress e gelosie di famiglia. E questo è quanto; per il resto, siamo di fronte alla classica palette di canzoni congegnate alla perfezione per funzionare in qualsiasi contesto. Le liriche sono giusto delle pennellate di colore, capaci di evocare semplici immagini con pochissimi generici tratti, facendo sì che chiunque possa sentirsi chiamato in causa. Esempi lampanti sono la cavalcata in stile U2 ad altezza "The Joshua Tree" di "Castle On The Hill", che evoca la più classica nostalgia di casa, o il racconto di una bella serata passata in compagnia di una "Galway Girl" dal carattere libero e scherzoso - perfetti ritratti di vita e di situazioni comuni nei quali chiunque può identificarsi senza problemi.
Abbondano anche i momenti romantici; l'andazzo vintage di "Dive" è chiaramente stato studiato per cercare di ricalcare lo strabiliante successo di "Thinking Out Loud" del disco precedente, mentre la semplice linea di pianoforte di "How Would You Feel (Paean)" guarda al vecchio Elton John (e l'arrangiamento è dei migliori, va detto). E poi ovviamente troviamo nostalgia prêt-à-porter a palate: "Perfect", "Happier" e "Supermarket Flowers", tutti bozzetti in versione più generica dell'intimismo di Damien Rice, capacissimi di parlare a tutti, eppure già sentiti e digeriti prima ancora di arrivare al secondo ritornello. Fa forse eccezione giusto "Hearts Don't Break Around Here", pezzo melodicamente fin troppo mieloso, ma dal cui testo si coglie uno spirito poetico più genuino e ispirato.
Inutile fare le corse per ascoltare un disco come questo, o anche andare a nascondersi per tentare di evitarlo, con un album così ben congegnato possiamo scommettere quasi per certo che radio, Tv, agenti pubblicitari e direttori di film & telefilm avranno solo l'imbarazzo della scelta su cosa propinarci per i prossimi dodici mesi. Ovviamente ci sta anche che qualche pezzo s'infili con subdola grazia nella vita di tutti i giorni di ognuno di noi, da un casuale ascolto in macchina che in quel momento "ci sta", all'assistere al primo ballo del matrimonio di un'amica basic bitch - Sheeran è qui per restare, non ce lo toglieremo facilmente di dosso.
Una domanda, però, se possibile, vorremmo fargliela: va bene che gli album a titolo consequenziale sembrano portare fortuna al momento (vedasi quelli cifrati di Adele), ma dopo "+" e "x" perché ridursi a chiamare proprio divide un disco così sfacciatamente populista?
05/03/2017