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Jack Antonoff: il re Mida del pop anni Dieci

Amato e odiato, accusato di appiattire tutto su un unico modello ma ambito da popstar di primo rango come Taylor Swift, Lorde e Lana Del Rey. Il suo volto è meno noto al grande pubblico di quello degli artisti con cui lavora, ma Jack Antonoff è il nome chiave del pop statunitense degli ultimi dieci anni.
Poco più di un decennio separa oggi dal 2011 dell’exploit dei suoi Fun. con “We Are Young” (e Janelle Monáe): un lasso di tempo in cui Antonoff si è speso sempre più in veste di produttore e ha collezionato successi: diciotto album nella top 10 della Billboard 200, quattro singoli al primo posto negli Stati Uniti, otto Grammy, oltre cento dischi d'oro e platino in tutto il mondo.

 

Il suo sound è ora onnipresente, ma i trascorsi di Antonoff sono tutt’altro che rivolti al pop di altissima classifica. Nativo del New Jersey, classe 1984, di famiglia ebrea polacca, il re Mida del pop ha mosso i suoi primi passi nel mondo musicale appassionandosi alle scene alternative e indipendenti, suonando in college band e divorando i dischi di Jesus And Mary Chain e Spiritualized, Mazzy Star e Mountain Goats, Rem, Green Day e NOFX. L’altra sua grande passione è il rock cantautorale, soprattutto nelle sue frange più ombrose: Nico e Tom Waits, Nick Cave, Red House Painters. Ma del suo pedigree di ascolti e ispirazioni fanno parte, immancabilmente, anche Fleetwood Mac e Beatles, Billy Joel, Paul Simon, un po’ qualunque cosa sia stata prodotta da Jeff Lynne. E, soprattutto, Springsteen. La scoperta dell’affinità elettiva con la musica del Boss non avviene subito, ma attorno ai vent’anni: prima di allora il principale volto musicale del New Jersey era per Antonoff parte del paesaggio, qualcosa di troppo quotidiano per ricevere attenzione. Poi, diventa il principale faro del suo songwriting, al punto che il suo progetto solistico, i Bleachers, può essere legittimamente inquadrato come un ardente tributo al personale heartland rock della E Street Band.

Come autore, le prime incisioni arrivano nel 2000 con gli Outline (punk rock) e qualche anno dopo con gli Steel Train (fra indie rock e folk). L’esordio come produttore è nel 2009 sul primo album dei Fun., gioiellino indie-progressive-power-pop di ispirazione Seventies e perfettamente inserito nella corrente (se così vogliamo chiamarla) fabloo. Tre anni più tardi, il botto di “Some Nights” (parimenti settantiano, ma in linea con l’assai più magniloquente stomp rock) lo porterà alla ribalta internazionale e farà fioccare le prime richieste di collaborazione. Carly Rae Jepsen, poi Taylor Swift per una traccia del suo acclamato “1989”, e da lì Troye Sivan e Sia, Pink, FKA Twigs, Olivia Rodrigo
L’incoronazione critica arriva però con i lavori formato Lp. Il primo è “Melodrama” di Lorde, nel 2017. Da allora, quello di Jack Antonoff diventa il nome da cercare - potendoselo permettere - per un sound contemporaneo ma dal gusto classico (quando non retrò), capace di risultare radioso e larger than life ma di conservare al tempo stesso un che di dimesso e nostalgico, insomma un subliminale aftertaste indie.
In un panorama sempre più orientato all’hip-hop e ai suoi derivati, lo stile di Antonoff è perfetto per artisti in cerca di un’ascendenza velatamente rock (e, qualcuno aggiungerebbe con malizia, bianca, benestante e confortevolmente progressista).

Se un aspetto ha però caratterizzato più di tutti le sue produzioni, questo è il legame con le voci femminili, in particolare in ambito art-pop. Il suo sontuoso lavoro per Lana Del Rey (tutti gli album da “Norman Fucking Rockwell” al recentissimo “Did You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd”, con la sola esclusione di “Blue Banisters”) è stato oggetto di accorati apprezzamenti per via delle sonorità a un tempo maestose e dimesse. Forse ancor di più, tuttavia, la sua indole dolceamara emerge in “Solar Power” di Lorde, sospeso fra richiami hippie e nostalgie di folk-pop fine Novanta (alzi la mano chi riesce a non pensare a “Torn” ascoltando il brano incluso nella playlist). Fan sfegatato di Kate Bush, ha affiancato in modo efficace St. Vincent (gli album sono “Masseduction” e “Daddy’s Home”) e Florence+The Machine (“Dance Fever”); restando in ambito art-pop, è notevole anche quanto fatto con i 1975 in “Being Funny In A Foreign Language”, che mette in scena un inventario di suggestioni che vanno dal sophisti-pop a John Cale passando per i Vampire Weekend.
Più di un elemento della figura di Antonoff rimanda a un altro rinomato produttore originario del New Jersey: Jon Brion. Ad accomunare i due ci sono l'inclinazione indie/alternative e la devozione all’art-pop femminile (fra le collaborazioni più celebri di Brion ci sono quelle con Aimee Mann e Fiona Apple), ma anche le frequenti sfumature piovigginose delle loro atmosfere (nel caso di Antonoff, spesso nel senso di sole e pioggia contemporaneamente), la mania per il Mellotron (e, nel caso di Brion, anche per un tot di altri proto-campionatori) e perfino la gavetta in ambito prog-power-pop (i Fun. per Antonoff, i Jellyfish di “Spilt Milk” per Brion).

Ascoltando i pezzi della selezione, emergeranno certamente altri tratti ricorrenti. L’ossessione per Mac e Paul Simon porta spesso in risalto le chitarre acustiche, che fin dalle prime avventure con Steel Train e Fun. sono giocate su accordi energici e luminosi. La dimensione intima e cantautorale è spesso coltivata attraverso arrangiamenti essenziali, ma altrettanto frequentemente sfocia in ritornelli trionfali che enfatizzano la dinamica dei brani. Ingredienti fondamentali per la riuscita di queste esplosioni, la cantabilità dei refrain (alle volte quasi caricaturale: l’hook melodico di “Look What You Made Me Do” di Taylor Swift conta numero due note), i toni da stadio della batteria, la grandiosità a base di tappeti d’archi e/o alluvioni di synth ottantiani (il Roland Juno è, dichiaratamente, la tastiera d’elezione del produttore). Scampanellii springsteeniani (“Choreomania”), pulsazioni synthwave (“Getaway Car”, “Anti-Hero”, “Beautiful Trauma”, “Want You In My Room”), accordi di piano in funzione percussiva (“How Dare You Want More”) aiutano non poco alla costruzione di climax che il più volte richiamano la coralità di Arcade Fire e compari. Dell’estro armonico degli esordi prog-pop resta tendenzialmente poco, ma l’occasionale accordo inatteso in questo o in quell’altro bridge testimonia che la valigia dei trucchi beatlesiani non è andata perduta nel passaggio al mainstream.
Qualche incursione in generi imprevisti (dall’r’n’b alternativo alla disco music revivalistica) sembra confermare che, nonostante le accuse di prevedibilità, lo spettro delle possibilità di Antonoff rimane piuttosto ampio. Altre critiche risultano meno facilmente derubricabili: suona molti strumenti, ma ne padroneggia pochi a livelli eccellenti (è il primo ad ammettere di essere un buon chitarrista, ma di non essere altrettanto soddisfatto delle sue doti di batterista, bassista e tastierista), la sua onnipresenza ai piani alti delle classiche sta sovraesponendone lo stile, alcuni schemi ritmici e melodici risultano molto simili a successi precedenti, firmati da altri artisti.

 

Come per le popstar più in vista, l’elenco dei detrattori cresce di pari passo con quello dei fan. Chi ha collaborato creativamente con Antonoff giura che si tratta del personaggio più rispettoso e gradevole del pianeta, capace di mettere a proprio agio gli artisti e aiutarli a dar forma alle proprie idee, ma le platee internettiane sono crescentemente divise. “Polarizing nice guy”, lo ha battezzato Quinn Moreland su Pitchfork in un articolo piuttosto citato. Se sia giunto il momento in cui il suo tocco dorato abbia iniziato a venire a noia sarà il tempo a dirlo. Per intanto, lo stralcio della sua produzione offerto dalla playlist a lato dovrebbe bastare a convincere della rilevanza già ora raggiunta dalla sua impronta.