Esternare la propria intimità con un'estetica dalle forti tinte folk è un aspetto che Florence Welch ha pilotato sempre in modo invidiabile.
In "Dance Fever", la cantautrice e scrittrice londinese e la sua affiatata band si sono dedicati a rimestare tutte le ansie e le aspettative sviluppatesi durante il blocco imposto dalla pandemia. Un momento storico di azzeramento che Florence ha utilizzato per scrivere testi introspettivi, ma anche d'euforia, un po' per scacciare tutti quei fantasmi che la stavano invadendo nel periodo d'isolamento.
Come al solito, le sue composizioni hanno un taglio catartico e di esplorazione interiore, nel quale la sua inimitabile vocalità, cangiante e carismatica, fa ingresso come una lama calda nel burro.
L'album conserva la consueta ispirazione rinascimentale, ma il fondamentale lavoro dei co-produttori Jack Antonoff aka Bleachers e Dave Bayley dei Glass Animals ha agevolato lo sdoganamento dei gotici istinti della Welch verso afflati pop più moderni, senza frenarne gli eclettici impulsi.
L'opener "King", nonché primo singolo del progetto, si palesa come un inno che saltella tra autostima e indagine emotiva: "I am no mother/ I am no bride/ I am king", ripete Florence con persuasione, in un gustoso contesto baroque-pop reso ancor più vivido dalle palpitanti percussioni.
La perfetta connessione con il titolo del disco è assegnata a "Choreomania", una scarica purificatrice che va verso la danza più sfrenata, quella che porta quasi alla morte per sfinimento, la condizione di catalizzatore per il risveglio spirituale e la sconfitta delle inquietudini. La canzone evoca al meglio questa condizione che prende spunto dalle radici storiche di quella che tra il XIV e il XVII secolo venne classificata come vera e propria malattia, in un rituale metafisico che i Florence + The Machine avviano con aplomb luminescente prima di farlo evolvere in clamore strepitante.
C'è spazio per il synth-rock ("Free") utilizzato per raccontare vicissitudini che portano all'accettazione della realtà anche in contesti gravosi, come per dolci ballate ("Back In Town" e "Girls Against God").
Tra i momenti migliori in scaletta si stagliano, in sequenza, "Dream Girl Evil", una rabbiosa chiamata dai connotati soul sul potere personale ("Am I your dream girl?/ you think of me in bed/ but you could never hold me/ you like me better in your head") e "Daffodil", passo nel quale la magnetica artista inglese ammette di scorgere bellezza all'interno di torve situazioni.
"My Love" è un episodio dalle stimmate pop che l'apporto di Bayley e Antonoff travasa in un numero dark-disco, grazie ai sintetizzatori che si miscelano sapientemente al mondo gotico che soggiorna nei meandri della Welch.
Anche nei momenti più frenetici, in "Dance Fever" vige un profondo senso di controllo che, attraverso la disperazione vissuta nel lungo tempo passato forzatamente a riflettere, ha consentito alla Welch la realizzazione di un'opera che emana sicurezza, quella che le è spesso mancata in passato per esorcizzare i demoni esistenziali che l'hanno pesantemente afflitta. Ogni traccia è una scintilla di speranza avviata per scatenare una fiamma entro la quale è piacevole lasciarsi avvolgere.
24/05/2022