Sognando Broadway
Kansas City, 1 dicembre 1985. Janelle nasce in pieno inverno, in una famiglia tutt’altro che agiata: madre bidella, in preda alla tossicodipendenza, e padre camionista. E' un’infanzia difficile, la sua. Che la tiene alle corde, ma senza mai investirla in futuro. E’ forte, la piccola Janelle. Ha carattere da vendere. E lo dimostra subito. Fin dai primi canti nel coro della chiesta battista a pochi passi da casa, è infatti lampante l’inclinazione artistica fuori da coro. Janelle pone sul piatto anche qualità letterarie, dando prova del suo talento a soli dodici anni scrivendo copioni per compagnie teatrali locali. Le altre sue grandi passioni sono le piante e Stevie Wonder, che considera da sempre un punto di riferimento totale per la sua formazione musicale. Dopo la laurea alla "F L Schlagle High School", riceve una borsa di studio per approfondire teatro musicale all'American Musical and Dramatic Academy di New York, dove, peraltro, è l'unica donna di colore della sua classe. Un’esperienza fugace e per certi versi disastrosa, che la porta di lì a poco a trasferirsi ad Atlanta, in una pensione condivisa con altre cinque donne, e un lavoro d’ufficio ottenuto per mantenersi gli studi e tenere così ancora vivo il sogno di scrivere musical e magari un giorno esordire a Broadway.
Sono anni intensi per la giovanissima Janelle, che si dimostra intraprendente in tutto ciò che fa. Gira nei college per promuovere le sue prime canzoni, richiamando l'attenzione dei suoi coetanei, che vedono in lei una potenziale futura stella della musica. Ed è proprio durante uno di questi "tour" che incontra due giovani cantautori: Chuck Lightning e Nate Wonder. L'intesa è istantanea e i tre fondano la Wondaland Arts Society, label dal taglio underground nata per supportare giovani artisti in cerca di una libera dimora. Una casa in cui poter sviluppare suoni e visioni senza alcun freno.
E’ il preludio al primo importante squillo. Nel 2005, a soli 20 anni, Janelle interpreta Roberta Flack in "Killing Me Softly With His Song" e ha la fortuna di ritrovarsi nel pubblico un certo Big Boi, che resta, guarda caso, estasiato dalla sua performance. E’ il contatto giusto al momento giusto. L’altra metà degli Outkast intuisce subito il potenziale della giovane cantautrice. E' stregato dal suo canto estroverso e brillante. Del resto, Janelle è esuberante e artisticamente poliedrica. Balla, recita, canta come una stella navigata della Motown. Ha inoltre una passione profonda sia per le visioni futuristiche e apocalittiche di Philip K. Dick, che per il cinema di Fritz Lang, omaggiato con l'Ep Metropolis, Suite I: The Chase nel 2007. Una visionaria, insomma. Una promessa come poche altre, munita per giunta di eccelse qualità ritmiche e scenografiche.
La propensione naturale della musicista di Kansas City a fondere l’esuberanza funky dei suoi amici Outkast e l’amore universale della regina Aretha sarà fin dalle prime composizioni un marchio distintivo. Ne è prova l'esordio "autoprodotto" nel 2003 con la sua Wondaland Arts Society: The Audition. Una prova solo parzialmente acerba, che contiene i semi di quella che sarà in poco tempo la next big thing del funk statunitense.
L'introduttiva "Lettin Go!" con gli archi in risalto, pomposi quanto basta per sottolineare l'eterna passione per i musical, evidenzia la propensione verso ballate che sembrano uscite da "West Side Story" di Arthur Laurents come "Cindi".
Altrove, invece, Janelle insegue Lauryn Hill, in modalità falò ("Its Not Fair") e "classica" ("Cloud 9"). E le riesce anche bene. Le cose vanno molto meglio quando iniziano le prove generali di quella che anni dopo sarà la sua ricetta, su tutte "My Favorite Thing", un mix di funky energico e progressioni soul.
The Audition è un disco a tratti "raffazzonato". Eppure, espone già la proverbiale verve di Janelle nel mantenere il palco durante i concerti e accenderlo con intriganti balletti che ricordano le movenze delle ballerine charleston degli anni 20. Una danza che sarà in futuro uno dei suoi punti di forza. Chiedere a un Obama estasiato dopo una performance alla Casa Bianca che definire perfetta è poco. Giusto per citarne una.
L’incontro con Big Boi nella prima metà degli anni Duemila sarà per Janelle soprattutto formativo, vista la presenza come vocalist nell'album del 2006 degli Outkast “Idlewild”. La Monáe canta divinamente in “Call The Law” e “In Your Dreams”, due biglietti da visita che la trasportano di scatto verso il mondo della musica che conta. L'Ep Metropolis, Suite I: The Chase viene infatti accolto con applausi più o meno scroscianti da buona parte della critica, portando alla Monáe una nomination ai Grammy Awards 2009 nella categoria “Best Urban/Alternative Performance” per il singolo “Many Moons”. E’ soltanto la prima delle otto nomination che riceverà negli anni successivi ai Grammy Award, a cui si aggiungono, per quello che possono “valere”, un Mtv Video Music Awards, l'ASCAP Vanguard Award, il "Rising Star Award" e il "Trailblazer of the Year" ai Billboard Women in Music. Un ventaglio di soddisfazioni suggellato nel 2016 dalla presenza in pellicole premiate all’Oscar come “Moonlight”, film per il quale riceverà uno Screen Actors Guild Award e un Satellite Award.
Gli ultimi anni del primo decennio del nuovo millennio espongono solo i primi fuochi d’artificio di una carriera tanto articolata, quanto singolare. Il 18 maggio 2010 The ArchAndroid vede la luce e sono faville dal primo all’ultimo secondo. La Monáe inserisce nel lotto la seconda e terza suite del progetto “Metropolis”, dando vita a un inedito concept-album in cui utilizza il suo alter ego cibernetico Cindi Mayweather, figura a metà tra Antiope e Cleopatra che ha il compito di illuminare e salvare il mondo Metropolis popolato da androidi. C’è così spazio per una narrazione concisa di avvenimenti a loro modo distopici. Maria di Metropolis è in tal caso la figura che incarna il male, dominatrice della classe operaia e tiranno inconsolabile, mentre Cindi raffigura una sorta di John Connor al femminile a capo di una minoranza ribelle, coinvolta peraltro in un amore impossibile per colpa dei limiti imposti dalla società bigotta. Dunque una donna simbolo di una riscossa necessaria in un 2719 in fondo non tanto diverso dal mondo d’oggi.
Quantificare l’eclettismo presente in The ArchAndroid non è cosa facile. Ci sono i Funkadelic che danzano con Erykah Badu. C’è Sade seduta al tavolo di un locale notturno con Marvin Gaye. E il poster di James Brown appeso al muro. C’è la fascinazione per mamma Africa che cozza quasi per magia con un microcosmo sci-fi a fungere da scenografia. Janelle a 25 anni ha già le idee chiare. Osserva la vetta e la raggiunge in scioltezza, allestendo un musical i cui atti oltrepassano convenzioni e sorvolano decadi di musica pop come un razzo spaziale.
Nel disco non ci sono punti deboli o riempitivi. Le chitarrine alla Chic ("Dance Or Die" con Saul Williams o la trascinante "Faster") sguazzano leggere, inondano gioia. Sono la quintessenza della felicità in musica. Mentre quella cosa chiamata groove segna a ogni istante nuovi punti a suo favore. Perché l'ex-sognatrice di Broadway sa perfettamente a chi affidare le chiavi del ritmo. E così Big Boi piazza l'affondo in "Tightrope" - singolo di lancio del disco nominato ai Grammy Awards del 2010 come Best Urban/Alternative Performance - articolando le varie fasi in un’incessante rumba elettrica.
In tracce come "Sir Greedown" ci si ferma poi a contemplare l’universo. Mentre in "Come Alive" spunta a sorpresa un'improvvisa frenesia rock. Non c’è tregua all’orizzonte. Si vola altissimi, saltando da un tappeto volante all’altro alla stregua dei migliori trapezisti bulgari. L'inesauribile assolo dell'erotic-ballad "Mushrooms & Roses", questa volta in stile Roger Nelson - che diventerà poco dopo ammiratore e mentore di Janelle, nonché collaboratore di lusso in "Givin Em What They Love” contenuta nel successivo The Electric Lady - le frequenze ovattate in soul-motion di "Neon Valley Street": sono “solo” alcuni dei momenti più intriganti di un album che sarà quasi all’istante un faro per musiciste sue amiche e coetanee, come ad esempio Solange, e future stelle del firmamento electro-r'n'b come Kelela, anagraficamente più grande di Janelle di due anni ma all’esordio discografico solo nel 2017. O per casi underground come Abra e promesse mantenute come Kali Uchis.
The ArchAndroid è un’opera totale. C’è un sample di "Rock With You" di Michael Jackson (“Locked Inside”) e il tema di “Clair de Lune” di Claude Debussy (“Say You’ll Go”). Mentre in "57821" un’invocazione celtica mista a folclore mira a cambiare nuovamente la carte sul tavolo. Così come la sinfonia teatrale in humour retrò di "Babopbyeya". Insomma, è il manifesto di un futurismo pop retroattivo, che affonda le sue radici nella black music più ispirata. Il primo grande disco di un decennio che vedrà la reginetta del Kansas sugli scudi. E un tour mondiale a dir poco spettacolare, come conferma anche la tappa berlinese.
In studio con Prince
Due anni dopo, nel 2013, sospinta dalle meritate lodi ricevute un po’ a destra e a manca, Janelle torna a bussare alle nostre porte a dir poco spalancate dall’eccellente The ArchAndroid. Il suo è un rientro carico d’energia frizzantina e di svolazzi stilistici attuati con il consueto scenario di stampo broadwayano ancora una volta ben posto sullo sfondo, a rimarcare la necessità di conferire all’insieme un’atmosfera da musical, tra laccati rimandi a certo soul dei Sessanta puntualmente di stampo Motown, inaspettate fughe elettriche con tanto di assolo finale e ballatone romantiche un po’ eighties. Il palese omaggio a “Electric Ladyland” di Hendrix e gli ospiti illustri suggeriscono poi quelle che saranno le cuciture del nuovo mantello sonoro. C’è innanzitutto sua Maestà Prince, amico e mentore per l’occasione nell’eccitante torsione funky “Givin' Em What They Love”, in cui prende quota la sua personale versione di Betty Davis dei nostri giorni, a scaldare ugola e platea. C’è Erykah Badu nel primo singolo, l’irriverente “Q.E.E.N.”. E c’è Miguel nella strappalacrime “Primetime”, con campionamento incorporato della generazionale “Where Is My Mind” dei Pixies. Ci sono infine Solange Knowles, la sorella meno nota ma non per questo meno brava di Beyoncè, in duetto nel morbido r’n’b della title track, e la contrabbassista Esperanza Spalding, a tendere ben più di una mano nel candore jazzy di “Dorothy Dandridge Eyes”.
Insomma, Janelle non si fa mancare proprio nulla, nella viva speranza di bissare le proprie fortune. L’interpretazione canora è qualitativamente ineccepibile, infinitamente sopra la media. Così come lo sono i fraseggi funky e i ritmi latini. C’è spazio anche per una nuova “Tightrope” (“Dance Apocalyptic”), o per pomposi archi in scia Candi Staton (“Look Into My Eyes” ). Non mancano poi sfacciati inchini ai maestri del passato che hanno sostanzialmente impresso a fuoco la loro influenza, come accade nella wonderiana “Ghetto Woman”. Mentre la coda dell’album appare molto più pacata e dimessa. Prendono così il sopravvento soffici armonie soulful, nello specifico “Our Favourite Fugitive”, “Victory” e “Sally Ride”. Prima che il sipario cali con la romantica “What An Experience”, mossa da una tastiera gommosa in bella mostra.
Con Electric Lady, Janelle rilegge alla propria maniera il vecchio r’n’b a stelle e strisce. Un disco solo a tratti eccessivamente pomposo e un’uscita frizzante, a cui segue nuovamente un intenso tour per il globo, che tuttavia non lascia di certo presagire una pausa di ben cinque anni, messa in atto per dare spazio alla mai sopita smania attoriale.
Cinque anni, dunque. Un lustro lontano dallo studio di registrazione è per i fan di Janelle, e non solo, un’eternità. Soprattutto quando sei la diva più talentuosa della black music e spunti dappertutto, sia come attrice in prima linea di pellicole hollywoodiane - vedi l'acclamato film di Theodore Melfi uscito nel 2016, "Il diritto di contare" o il il sopracitato “Moonlight” - sia come compositrice di colonne sonore per prestigiose serie Netflix quale "The Get Down". Tutto senza dimenticare la stretta vicinanza al rimpianto Prince. La Monáe resterà infatti l'ultima musicista ad aver collaborato intensamente con il folletto di Minneapolis prima della sua scomparsa.
La terza prova, Dirty Computer, nasce dunque segnata da un immane carico di aspettative. Ma la reginetta venuta dal Kansas fa ancora una volta le cose per bene, chiamando a sé pochi ospiti ma tutti a dir poco buoni, e focalizzando la sua attenzione verso una produzione al solito meticolosa, perfetta in ogni singola partitura, e alla quale funge da volano un approccio per l'occasione poco orientato alle atmosfere orchestrali in scia musical dei due album precedenti. Per una produzione complessiva al contrario esagerata. Il conto è terribilmente salato e non saranno pochi i salti mortali per rientrare nei costi.
Ambizione e filantropia
La Monáe non rinuncia quindi al concept, all'opera partorita seguendo una filosofia ben definita. In Dirty Computer, titolo che già la dice lunga sulle intenzioni a monte, la metafora è avvincente, tematicamente inserita nell'epoca odierna. Janelle idealizza l'essere umano come una sorta di Personal Computer, quindi con i suoi bug, i suoi virus e quei difetti propri delle macchine, riducendo infine tali imperfezioni a mere opportunità. Così facendo, orienta il messaggio a 360°, abbracciando queer, minoranze, donne povere e chi più ne ha, più ne metta. Il disagio sociale è platealmente esorcizzato mediante una raffica di esternazioni poste tra una strofa e l'altra. La brevissima open track in compagnia del maestro Brian Wilson pone così le basi di quelli che saranno mediamente gli umori del disco. Un'atmosfera lunare, con tanto di coretto da tappeto, e parole ispirate alla sopracitata allegoria introducono la successiva "Crazy, Classic, Life". Un brano, quest'ultimo, ispirato dalle parole della celebre scrittrice Mary Beard nel suo libro "Women & Power"; in particolar modo, la riflessione mirata sulla vera libertà e sul diritto di sbagliare, almeno occasionalmente, delle donne; le quali, non sempre vengono perdonate, al contrario dei maschi. Il ritmo con i kick in loop in perfetta tendenza "trap" e un certo trionfalismo precedono un refrain morbido e appiccicoso.
Una linearità e una serenità che traspaiono al meglio in diverse tracce, mentre le consuete bollicine funky forniscono una carica frizzantina, dal voltaggio minore, ma che non rinuncia a bassi esplosivi alla stregua di un Thundercat ("Take A Byte"), o per essere ancora più precisi alla Prince, visto che tante idee provengono proprio dall'amplesso artistico con Nelson, come dichiarato dalla stessa Janelle in diverse interviste.
Le chitarrine ammiccanti di "Screwed", in compagnia della figlia di Lenny Kravitz, Zoë, incarnano a loro volta l'energico apripista di un brano pop laccatissimo. Ben altro mood caratterizza invece la successiva "Dirty Jane", secondo singolo di lancio dell'album; una canzone sofferta, spinta dal sacrosanto sdegno per la condizione in cui versano ancora oggi molte donne di colore, posto da perno centrale di un pezzo essenzialmente rap, legato qui e là da archi e beat possenti. L'altra ospitata al femminile con Grimes è al contrario il momento più debole, con un motivetto in strofa che ricorda troppo quello della sempreverde hit mondiale "Girls Just Want To Have Fun", canzone scritta da Robert Hazard nel 1979 e riadattata nella sua versione più famosa da Cyndi Lauper.
Meno intenso rispetto ad altri pezzi del lotto è anche il primo singolo "Make Me Feel", bombetta pop simpatica ma fin troppo princeana (ci risiamo!). Decisamente meglio risulta la collaborazione in salsetta esotica con il buon Pharrell Williams, una piccola scarica adrenalinica che riporta a certe frustrate ritmiche di M.I.A.. Di ben altra luce gode poi la morbidissima ballad "I Like That", munita di r'n'b liquido e fresco quanto basta per conficcarsi in testa e non mollare mai la presa.
Dirty Computer alterna passaggi di puro candore pop ad altri improvvisamente più impegnati in coda, come il magnetismo soul che solleva la suadente ballad "Stevie's Dream". Una piccola grande chicca che anticipa la trionfale "Americans", prodotta da Nate "Rocket" Wonder con una buona dose di semplicità, alla stregua di un Moroder in uscita libera nel bel mezzo degli anni 80.
Al netto di qualche episodio vagamente stucchevole, Dirty Computer è un album riuscito, distante dalle magniloquenze dei suoi predecessori, eppure vario, brioso e dannatamente pop nella giusta misura. Un'opera a sé stante, e anche un vero e proprio progetto cinematografico, ambientato in un futuro imprecisato, in cui tutti sono dei computer, mentre la Monáe indossa i panni della protagonista Janelle 57821. Un'operazione totalizzante, grazie alla quale la musicista americana dimostra di essere a pieno titolo la reginetta della black music odierna. In compagnia, ma per ragioni differenti, di Solange e FKA Twigs, entrambe distanti e parimenti contraddistinte da un approccio talvolta più "sperimentale", a suo modo localizzato, in netto contrasto con la maggiore pluralità pop-funky della Monáe. La quale, come se non bastasse, si (ri)conferma fenomeno di portata unica nei suoi concerti.
Nel frattempo, Janelle si afferma anche come attivista politica sempre pronta a schierarsi in battaglie importanti, in quanto sostenitrice pansessuale della comunità LGBT e dei diritti di quella afroamericana. Il suo impegno è infatti costellato di incontri con i più giovani atti a definire l’importanza del voto. Un dinamismo a cui fa da contraltare la consueta onnipresenza nello showbiz americano, come testimonia l’ennesima performance dirompente alla serata degli Oscar 2020. C'è poi la propensione per la filantropia, che la porta attraverso la fondazione della Wondaland Arts Society anche a rilasciare stravaganti iniziative, come i "Ten Droid Commandments", con i quali Janelle si prefigge di trasportare coloro che ascolteranno la musica prodotta dalla sua comunità in una sorta di universo “parallelo” in cui mettere da parte “le aspettative sull'arte, la razza, il genere, la cultura e la gravità". What else?
Trascorrono ben cinque anni prima che Janelle metta nuovamente piede in uno studio di registrazione. The Age of Pleasure segna un ritorno che segue gli impegni della cantautrice soul del Missouri come attrice per le pellicole di Kasi Lemmons, Julie Taymor e Rian Johnson, il richiamo filantropico per le tematiche sociali più disparate e le roboanti performance hollywoodiane. Cinque anni a dir poco intensi per Janelle, che ha di fatto chiuso a chiave lo studio di registrazione per cimentarsi in tutt’altro. Un album che si presenta dunque con il suo bel carico di attese. E non potrebbe essere diversamente visti anche gli ospiti in ballo come, tra gli altri, Grace Jones, chiamata in causa però per pochissimo tempo nell’interludio “Oooh La La” e Seun Kuti presente invece in due brani. Ed è proprio quest’ultimo con i suoi Egypt 80 ad accompagnare ai fiati la Monáe nel primo singolo: “Float”. E’ una canzone appunto fluttuante, con la band nigeriana a rallegrare senza strafare troppo. Janelle glorifica la sua età dell’oro, tra epifanie da Tiffany ed energie da proteggere. Si sente leggera come una piuma e abbraccia il mito di Muhammad Alì. “Champagne Shit” prosegue poi alla stessa maniera, ed esalta con ironia uno stato d’animo che è di allegria per se stessi e fiducia totale nei propri mezzi, visti i notevoli traguardi. Janelle indossa così i panni del giullare per il suo nuovo musical multicolor. Non ci sono però solo coriandoli e festoni.
The Age of Pleasure offre sul “piatto” in primis il piacere della carne. E’ un erotismo pansessuale, che spunta in tracce ardite come “Phenomenal”, con la rapper californiana Doechii in escandescenza, o nella più scontata “Lipstick Lover”, la cui aurea gospel è tipica della musica di Janelle. La produzione del fidato Nate 'Rocket' Wonder ambisce ancora una volta all’opera broadwayana, traslata però su qualche atollo oceanico, tra percussioni reggae, trame elettriche, chitarre gitane, lampi al synth e bassi soffusi. “The Age of Pleasure” pulsa a luci basse negli episodi più riusciti, come “The Rush”, che esalta le “coriste” Nia Long e Amaarae in una danza latina parecchio ammaliante. Si prenda poi da esempio anche la balearica “Water Slide”, che sembra uscita proprio dalla piscina in cui Janelle si è tuffata per lo scatto in copertina, lasciandosi immortalare raggiante tra le gambe dei suoi conviviali.
Le canzoni di The Age of Pleasure sono piccoli momenti di gioia, eccezion fatta per la più cupa “Know Better”, che comunque non lascia alcun segno al suo passaggio, tra il consueto armamentario di fiati e passettini calienti. C’è di certo tanto reggae in salsa soul in questo nuovo disco della Monáe, che si chiude con una goccia di malinconia utile per una notte in riva al mare al chiaro di luna ("A Dry Red”). Un album in buona sostanza meno trascinante degli altri, concepito per una festa privata in cui sciogliersi ma senza esplodere fuochi d’artificio. E in fin dei conti va anche bene così.
23/09/2023
The Audition (Wondaland Arts Society, 2003) | ||
The ArchAndroid (Bad Boy, 2010) | ||
The Electric Lady(Bad Boy, 2013) | ||
Dirty Computer (Atlantic, 2018) | ||
The Age of Pleasure (Atlantic, 2023) |
Tightrope (da The ArchAndroid, 2010) | |
Electric Lady (da The Electric Lady, 2013) | |
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