Ehi, è il mio album. Chi può raccontare la mia storia meglio di me?
(Lauryn Hill, 1998)
Diseducarsi al verbo dei Fugees, all’amore fugace per Wycleaf Jean e alle pressioni del mercato discografico che suggeriscono di abortire è stato un processo lungo e difficile per la gracile e a tratti indifesa Lauryn Hill. Nel 1998, la ventitreenne del New Jersey si appresta a diventare la stella del neosoul di fine millennio. Il punto di incontro ideale tra Aretha Franklin e Bob Marley. Tra la voce dell’anima e quella dello spirito. Cinque Grammy, 19 milioni di copie vendute nel mondo e una serie impressionante di sold-out definiscono un successo straordinario per la cantautrice statunitense, finalmente libera di svolazzare tra i temi che più le stanno a cuore in quel periodo e di mescolare l’amore per il reggae giamaicano e quello mai nascosto per il gospel più profondo. E’ proprio da questa fusione che nasce l’ossatura di “The Miseducation Of Lauryn Hill”. Un ibrido che non fornisce certamente alcuna innovazione nel panorama della black music dell'epoca, ma che a suo modo definisce una singolare ricetta cantautorale, con la Hill nei panni sia della poetessa disillusa che dall’amante ferita. Una leonessa in apparenza docile, che però sa perfettamente come graffiare, attraverso parole che mescolano gli insegnamenti del padre di suo marito Rohan Marley e quelli dei predicatori protestanti, raggiungendo gradualmente nuova coscienza per la sopravvenuta maternità. La Hill si ritrova nei panni di una madre che deve decidere tra la crescita di suo figlio e il successo personale. “To Zion” è infatti dedicata al piccolo Zion David, nato nell’agosto del 1997 e offre a pieno titolo il conflitto a cui è sottoposta la musicista in quegli anni.
Now the joy of my world
Is in Zion! (Zion, Zion!)
Bastano queste parole, contenute nel refrain urlante di gioia e liberazione, per intendere le metafore adottate dalla Hill non solo nella sua vita, bensì nella sua prima e unica opera discografica da solista. Il suo pargolo è dunque la Zion rastafariana. La Gerusalemme citata nei passi post-esilici della Bibbia. Il tempio da ricostruire con una felicità mai vissuta prima. E’ uno dei passi più emblematici per comprendere al meglio l’accezione autobiografica di un album che resterà un unicum non solo nella breve carriera della musicista, ma nella stessa scena neosoul a stelle e strisce. Sorvolando l'Atlantico, si potrebbe scomodare come "riferimento" e possibile apripista il capolavoro della svedese Neneh Cherry, “Homebrew”, uscito nel 1992. Ma è un disco stilisticamente più fluttuante dell’esordio della Hill. Resterebbe, dunque, un parallelo riduttivo, nonostante la somiglianza con alcuni temi trattati in alcuni episodi, come quello della sopracitata maternità.
Ad agitare l’animo della Hill, garantendole un’incredibile ispirazione, è in realtà un percorso solitario ben preciso, attuato dopo le prime turbolenze con i suoi Fugees. Dopo aver scritto e prodotto “A Rose Is Still A Rose” per l'amata Franklin, così come per Whitney Houston e una miriade di interpreti r’n’b, la Hill accumula nei mesi immediatamente precedenti la creazione dell'opera in questione un bagaglio impressionante di influenze stilistiche, dirette e indirette.
Registrato tra il 1997 e il 1998, sia nei Chung King Studios di New York che nei Tuff Gong Studios di Kingston, “The Miseducation Of Lauryn Hill” è un compendio immacolato di calde partiture soul che si amalgamano strofa per strofa a suon di riff reggae e ritmi africani. Un album personale, scritto quasi interamente dalla stessa Hill, la quale gode praticamente sempre dell’ultima parola su tutto, al punto da non considerare vitale la presenza durante le registrazioni del gruppo di musicisti conosciuto come New Ark, formato da Vada Nobles, Rasheem Pugh, Tejumold Newton e Johari Newton. Una scarsa riconoscenza che muta presto in una disputa legale risolta soltanto nel 2001, con i New Ark inorriditi dal totalitarismo produttivo della Hill, rea di non aver per nulla dato a “Cesare quel che è di Cesare”. Una bagarre comunque vagamente superflua, vista la mano pesante con cui la Hill mette in piedi ogni singolo momento dell’album, ad eccezione degli ospiti illustri chiamati in causa, come Carlos Santana presente nella stessa “To Zion” con il suo inconfondibile tocco, l’amica Mary J. Blige in "I Used To Love Him" e il divino D'Angelo in "Nothing Even Matters".
Some wan' play young Lauryn like she dumb
But remember not a game new under the sun
Everything you did has already been done
I know all the tricks from Bricks to Kingston
Collaborazioni pesanti per un’opera che parte a razzo con il passo dub infarcito di collera de “Lost Ones”, il cui incipit corale strizza l’occhio alle I Threes, mentre i versi sottolineano la consapevolezza della cantautrice ormai non più inerte dinanzi alle assurdità del business discografico e alle finte pacche sulla spalla. Un avvio prorompente, impetuoso, da contraltare alla dolcezza della ballata “Ex- Factor”, rivolta all'ex-compagno di band (e non solo) dei Fugees, Wyclef Jean. E’ l’amore incondizionato per Marvin Gaye a disegnare i tratti melodici di una hit riuscitissima, cantata con verve passionale dalla Hill, sempre più a suo agio al microfono, e nello specifico sempre più libera di urlare al mondo la propria collera.
Ma la hit planetaria che simboleggia più di ogni altra la diseducazione dell’americana è senza dubbio “Doo Wop (That Thing)”. Uno di quei miracoli da fare impallidire Diana Ross e le Supremes, alle quali la Hill deve comunque tanto. Un singolo capace di raggiungere il primo posto nelle classifiche di Billboard e collezionare ben due Grammy per la migliore canzone r’n’b e la migliore performance vocale r’n’b femminile. E un testo che rappresenta un monito per gli essere umani, chiamati in causa per non farsi schiavizzare da “quella cosa”, al di là della propria sessualità. Dulcis in fundo, prima canzone a debuttare nella storia di Billboard direttamente in vetta. Memorabile anche il sample intorno al primo minuto di “Together Let's Find Love” dei grandissimi The 5th Dimension.
E’ invece un vero e proprio omaggio il cenno al cavallo di battaglia per antonomasia dei Doors, "Light My Fire", presente nella successiva “Superstar”. Ne riprende leggermente la melodia, modificando allo stesso tempo il testo originale per scagliarsi contro gli Mc a suo dire “suckers”. E', in buona sostanza, l'ennesimo sassolino nella scarpa estratto e scaraventato verso i suoi ex-compagni di “merenda”. Sample di Prince e Cox Orange appaiono sullo sfondo di “Final Hour”, con tanto di fiati e arpe che subentrano tra un’invettiva e l’altra, mentre la base segnala totale aderenza ai battiti di matrice hip-hop rigorosamente old school. Dolore e autocompassione trovano spazio anche nella struggente “When It Hurts So Bad”.
Tra richiami al soul d’annata infarcito di semi giamaicani (“Forgive Them Father”) e clavinet wonderiano (“Every Ghetto, Every City”), si arriva sinuosamente al duetto mistico con il lanciatissimo D’Angelo (“Nothing Even Matters”). Un episodio definito dalla Hill in questi termini: “Volevo fare una canzone d'amore alla Roberta Flack e Donny Hathaway, e dare alla gente un approccio più umano all'amore, senza tutta la fisicità e la sessualità da contorno”. E’ in effetti una ballatona morbidissima e a tratti magicamente stucchevole, in perfetta sinapsi con le teneri alchimie create mediamente dal buon D’Angelo. In coda, svetta il quarto singolo del disco, “Everything Is Everything”, con uno sconosciuto Jon Legend al piano e invettiva politica a favore delle giovani comunità statunitensi da traino al mood imperioso del refrain. Riuscitissima anche la cover della leggendaria “Can't Take My Eyes Off Of You” scritta da Bob Crewe e Bob Gaudio per Frankie Valli, cantata con piglio gospel e attitudine reggae.
Negli anni a venire, sarà ovviamente impossibile confrontare “The Miseducation Of Lauryn Hill” con un eventuale successore, vista la decisione di Lauryn Hill di ritirarsi dalle scene per badare alla propria nutrita prole avuta con Marley. Resterà quindi un unicum, una stella isolata ed eternamente brillante nel firmamento della black music di fine millennio. Un album paragonabile per profondità complessiva, anche se per motivi singolarmente differenti, all'autobiografico "The Diary Of Alicia Keys" di Alicia Keys e al calibratissimo "Mama's Gun" di Erykah Badu. Come la Hill, entrambe regine di una “rinascita” r'n'b e soul che ha segnato un'epoca.
05/01/2020