Neneh Cherry è un’artista fenomenale, i cui progetti musicali sono frutto di riflessioni e di collaborazioni che maturano nel tempo. Cresciuta tra Svezia e Stati Uniti in un milieu culturale quantomai ricco e stimolante - la madre Moki era una celebre artista visiva, il padre un percussionista della Sierra Leone e il padre adottivo, Don Cherry, uno dei maggiori esponenti del free-jazz - Neneh da adolescente abbandona la scuola e si trasferisce a Londra, vivendo in uno squat e iniziando a collaborare con Poly Styrene delle X-Ray Spex e le Slits.
Il suo percorso musicale definisce un’artista contemporanea a tutto tondo, per il quale la musica prodotta non si slega dalle buone pratiche artistiche e dal dialogo con le altre arti, fondamentale nei generi che l’hanno influenzata, per cui l’elaborazione di opere coerenti e complesse passa da un lungo processo di gestazione. I suoi trascorsi hip-hop, il brano-manifesto “Woman”, la celebre hit “7 Seconds” insieme a Youssou N’Dour, così come il profondo sodalizio artistico con il marito - il musicista e produttore Cameron McVey - e le collaborazioni con Robert “3D” Del Naja dei Massive Attack, The Thing di Mats Gustafsson e Four Tet, rientrano nel percorso di un’artista senza limiti di genere, che non si allinea alle tempistiche dell’industria discografica e che produce i propri dischi in maniera irregolare, senza mai però allontanarsi dalla pratica musicale.
L’inizio del disco è semplicemente perfetto, con la doppietta “Fallen Leaves” e “Kong”, brani che rimandano a sonorità elettroniche anni Novanta e Zero. Gli arrangiamenti di arpa e vibrafono del brano di apertura, di “Synchronized Devotion”, “Black Monday” e “Soldier”, così caratteristici della produzione di Four Tet - basti pensare all’ultimo album solista “New Energy” (2017, Text Records) - richiamano anche la fase “Vespertine” (2001, One Little Indian) di Bjork, altra artista “totale” che ha raccontato il passaggio tra i due millenni e che, come la Cherry, cura i progetti musicali come progetti artistici completi, includendo nella sua riflessione gli artwork, i videoclip e il look.
Ogni brano di “Broken Politics” ricorda soprattutto due cose fondamentali: la micidiale musicalità e la capacità di storyteller della Cherry, che la ricollegano sia al passato, e alla tradizione, di cantautori r’n’b/soul come Curtis Mayfield per i quali il “personale è politico”, sia al presente, e alla storia, delle ricerche artistiche a sfondo socio-culturale come il progetto “Coin Coin” di Matana Roberts, sulla diaspora degli africani.
Il sound, il groove e le pulsazioni del disco provengono invece, ancora una volta, da quel coacervo di esperienze musicali meticce che è il Regno Unito, da Bristol e da Londra soprattutto negli anni Novanta, anni retro-futuristici. Ed è esattamente questa la prospettiva in cui vuole inserirsi, e portarci, “Broken Politics” attraverso dodici brani in cui la Cherry racconta ciò che vede - dalle coste di Calais in Francia ai sobborghi degli Stati Uniti per parlare di emarginazione - e come si posiziona lei stessa come artista nel mondo, cosciente delle proprie responsabilità: “It's my politics living in the slow jam/ Everything low, rain slow/ Play for supreme/ Delightful, painful/ Play with me synchronized/ I’m a Pisces hanging from the vine/ Live it out a day at a time/ My name is Neneh” (da “Synchronized Devotion”).
Nel disco si trovano anche richiami alla storia e alla cultura afroamericana: i campionamenti di “Natural Skin Deep”, con uno strepitoso estratto strumentale di Ornette Coleman, storico collaboratore del padre adottivo; i riferimenti alla schiavitù in “Poem Daddy” e “Shot Gun Shack”, le piccole abitazioni dove vivevano gli afroamericani, definite dal fatto di poter essere attraversate con un colpo di pistola da parete a parete.
Neneh Cherry conferma ancora una volta di essere un’artista in grado di influenzare anche le musiciste più giovani, condensando nella musica ricerche interdisciplinari e transculturali. A oggi è di fatto il Regno Unito a restituire i peculiari talenti di Kate Tempest e Tirzah, tra spoken-word e soul, tra le serrate pulsazioni della poesia civile della prima e le polimelodie intimiste della seconda. Di questa Europa che si sta sgretolando - “Europe is Lost” canta la Tempest - Cherry racconta la disconnessione tra umano e dis-umano con il tentativo di trovare dei valori (sub)culturali comuni. Per questa operazione personale e politica chiama a sé la parte più virtuosa del vecchio continente in epoca Brexit: le ibridazioni globali di Four Tet e Massive Attack, lo sguardo antropologico di Wolfgang Tillmans e la visionarietà afrofuturista di Jenn Nkiru.
Quella di Neneh Cherry è una “quiet revolution”, in un momento in cui siamo tutti bombardati da news e fake news, in cui sono calpestati i diritti umani e in cui egoismo ed emotività prendono la pancia di Europa, Regno Uniti e America. La cantautrice svedese cerca di acquietare lo spirito e di creare pulsazioni rarefatte e groove ripetitivi per anime e corpi, creando un raffinato rituale di ascolto della parola. Il disco infatti colpisce meno di “Blank Project”, nel senso proprio fisico di scuoterti, e forse a tratti può suonare quasi anacronistico. Ma la “quieta rivoluzione” retro-futurista dell’artista svedese porta verso la voce e la parola, verso le qualità dell’umano e il valore della collaborazione, sfoggiando un’eleganza, una padronanza e una classe straordinarie.
Slow Jam
Coming with memory
Don't live for nostalgia
But the impact of everything resonates
29/10/2018