Era un segnale troppo forte per passare inosservato, per non scorgervi l'evidente messaggio implicito, che per altro non tardò ad essere estrinsecato, tra interviste e dichiarazioni varie. La fulminante raccolta di cover che due anni fa interruppe uno iato discografico in “solitaria” durato ben sedici anni (iato in cui comunque la voce di Neneh Cherry è tornata ripetutamente a farsi sentire, tra apparizioni e progetti collaterali), quel “The Cherry Thing” in compagnia dei Thing dell'estroso free-jazzer Mats Gustaffson, non si poneva semplicemente come parentesi una tantum (di prim'ordine, in ogni caso), ma apriva una nuova stagione nella carriera trentennale della straordinaria artista svedese, un nuovo affascinante capitolo tutto da scoprire, da vivere nuovamente come autentica protagonista.
Due anni dopo, il momento di aggiungere il quarto tassello ad un mosaico interrottosi proprio sul più bello (a seguito di quel “Man” del 1996 che la vide assecondare con classe infinita e piglio sanguigno le proprie pulsioni soul) è finalmente realtà. Quale soddisfazione, rendersi conto che lo spirito di un tempo, la sfrontatezza e quel senso del rischio che stimolarono quell'eccellente tris di dischi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, non soltanto non hanno perso lo smalto di un tempo, ma anzi vengono ulteriormente affinati, spinti al massimo delle loro possibilità in un album che taglia tanti dei ponti con il passato. Niente male, per quello che è stato intitolato come un “progetto in bianco”.
Più che in altre occasioni, anche soltanto rispetto al suo diretto predecessore, con “Blank Project” occorre davvero azzerare le proprie aspettative, annullare ogni desiderio, legittimo o meno che sia, e spendere del tempo aggiuntivo, per entrare in un mondo apparentemente inconciliabile con la figliastra di cotanto Don, quasi asettico, dati i precedenti. Tutte percezioni che anche un solo ascolto spazza via senza grossi problemi. Da sempre prona al rinnovamento, propensa a cambiamenti anche radicali che ne tenessero viva la bollente ispirazione (difficile immaginarsela dopo il jazz-punk avantgarde dei Rip Rig & Panic a tirare fuori un classico hip-hop quale “Buffalo Stance”), con un atteggiamento anticonformista ereditato dai suoi esordi tra le fila delle tarde Slits, Neneh ha tenuto fede esclusivamente al proprio estro, al costo anche di pregiudicare transitori riscontri di pubblico.
In questo senso, il suo nuovo album risulta coerente prosecuzione di quel percorso, la sua è una rottura stilistica, più che di spirito. Una rottura che comunque fa valere tutta la sua specificità: perché anche a cercare, non riuscirete proprio a trovare una Cherry così spoglia, spigolosa, minimale, un suo disco che abbia operato così accortamente di sottrazione, rinunciando al ricco comparto sonoro dei suoi trascorsi. Merito dell'accorta ed efficace produzione di Kieran Hebden, oramai richiesto dai più disparati musicisti: come già nel caso del buon “Wenu Wenu” di Omar Souleyman, non soverchia, non costringe l'espressività del dato artista al proprio pacchetto d'idee, semmai indirizza, consiglia possibili ibridazioni, nel rispetto delle rispettive posizioni.
L'approdo quindi a una formula così spoglia, giocata su ossuti beat, rade scansioni di synth e poco altro, pur lontanissima dalle calde effusioni urban-soul a lei più note, non rinuncia al trasporto emotivo suo cavallo di battaglia, semplicemente lascia che escogiti altri sistemi per riuscire ad esprimersi con analoga potenza. Non è quindi un caso che la voce di Neneh, capricciosa e sensuale allo stesso tempo, qui sia onnipresente, detti lei il passo, ancor più che i tratti ritmici di base. Certo è, che quella straordinaria duttilità timbrica non ha ceduto di un millimetro rispetto al passato: l'incipit “Across The Water” se ne fa carico, l'avvicendarsi di un sinuoso flow e di grintosi scatti d'animo nel refrain a prendersi tutto lo spazio, lasciando l'elettronica a mero contorno.
Voce come mezzo per creare ammalianti flussi di coscienza dunque, come veicolo comunicativo primario, nell'interpretazione di testi, al solito di assoluto spessore, ma anche nella libertà di prendersi concessioni quasi jazz (ecco che ritorna “The Cherry Thing”), di slegarsi dal contesto della parola (si ascolti la seconda metà di “Everything”, forse il pezzo che, tra i suoi frammenti di synth e di ritmo meglio riassume quest'aspetto). Poco importa se le melodie realmente concepite come tali siano la minoranza, se non si evidenzino uncini a presa rapida: anzi, quando si va a parare in zona pop, ne viene fuori l'episodio complessivamente meno riuscito del lotto (“Out Of The Black” in compagnia della electro-diva Robyn, fin troppo monolitica e asettica nel suo decorso). Non è a questo che mira la raccolta, l'esigenza di raccontare e raccontarsi non cerca nell'immediatezza la sua valvola di sfogo.
Anche così, vi è più di un motivo per restare affascinati da un'operazione del genere: basta vedere come la Cherry reinterpreta la contemporaneità, come aggredisce un'impalcatura electro à-la M.I.A. nella title track e la fa totalmente propria, da vera navigata dell'ambiente. Oppure eccola grondare la propria anima in “Naked” e lanciarsi su scale quasi mediorientali, costruendo forse il passaggio più emblematico dell'intero lavoro. Non mancano poi collegamenti alla grande stagione bristoliana che fu (in “Weightless”, per quanto totalmente trasfigurati da un approccio che li collega all'attuale stagione post-dubstep) e nemmeno intrepidi crescendo organizzati su complesse articolazioni ritmiche (“Dossier”).
Insomma, l'ennesimo lavoro che prende la banalità e la invita gentilmente a uscire fuori di casa, anche con qualche asperità in più. Un altro bel centro per un percorso parco nelle uscite, ma sempre generoso nelle soddisfazioni.
01/03/2014