Atlanta è tra le maggiori capitali dell'hip-hop, ma col twist. Da André 3000 a Gucci Mane e Young Thug, i nomi che vi nascono finiscono per lo più con assumere una particolarità stilistica inusitatamente sgargiante e offbeat, che si pone al di fuori della solita diatriba East contro West Coast. Ma anche per chi già segue il lato più colorito dei suoni di città, il collettivo della Awful Records ha le sembianze di un gruppo di scappati di casa (guardateli). Si narra che nel loro quartier generale - un appartamento semi-dimesso situato in uno dei quartieri più poveri della città - non ci sia nemmeno l'acqua corrente in bagno, e viga ancora il vecchio metodo del secchio. Tale narrativa ovviamente giova all'intento, l'estetica do it yourself è un marchio di fabbrica del quale tutti i componenti del collettivo vanno fieri, incluso il padre fondatore, Father. Ultimamente, chi sta facendo parlare di sé è la giovane Abra aka Duchess Of Darkwave (la definizione è sua, state calmi). Tramite questa voce esile ma evocativa, infatti, la Awful sta ricevendo improvvisamente una nuova ondata di attenzioni, proprio come un paio d'anni fa Kelela fu quel faro capace di far luce sull'intera comunità della Fade To Mind.
Anche Abra ha un approccio fai-da-te, e pure nel suo caso non si tratta solamente di estetica. La sua è una presenza da ragazza interrotta, venata da una sensualità esuberante ma ancora acerba e offuscata. Il retaggio anni 80 che serpeggia tra le linee della sua musica - suggerito a noi europei pure dall'altisonante parolone darkwave - è dovuto più da una mancanza di software adeguati che non da una specifica presa di posizione artistica. Del resto il ritmo dei suoi pezzi non segue i convenzionali canoni r&b, l'atmosfera fluttua eterea come fosse filtrata attraverso vaghe memorie di un'era della quale si è solamente sentito parlare in qualche programma Tv - uno stile che già si respirava a pieni polmoni sull'Ep di debutto "Blq Velvet", e soprattutto sul suo primo album "Rose", del quale infatti faceva parte uno dei pezzi più belli e suggestivi di quest'intera stagione, "Fruit".
"Princess" in questo è solo un altro mini-capitolo della saga, ma è altrettanto capace d'insinuarsi sottotraccia e stazionare tra i neuroni nel retro del cervello, facendo capolino nei momenti di noiosa malinconia e appiccicosa afa estiva. Stavolta, a far da traino ci sono "Crybaby", un impalpabile pezzo al profumo di synth-pop sbavato di chillwave, e una "Vegas" che impiega effetti di tastiera vecchi quanto una hit di Mel & Kim, ma in bocca ad Abra il tutto assume un tono instabile e al contempo affascinante.
Impossibile stabilire se Abra avrà un futuro da popstar o meno; la sua musica è come un affresco, un sentimento di vago spaesamento buttato su nastro senza stare a pensarci troppo sopra, complice anche un confessato uso non indifferente di marijuana, che evidentemente aiuta non poco a confondere i bordi della percezione. Ma il talento di Abra sta proprio nel suo trasmettere insicurezza e paranoia, nel suo farsi voce di una generazione persa e indecisa sul proprio futuro.
Non sarà certo "Princess" a sconvolgere le sorti di questa ragazza, ma era doveroso presentare una delle voci più particolari del panorama indie americano. Se vi siete fatti incuriosire dal racconto (o anche solo dalle tette in copertina), benvenuti nel mondo di Abra, anti-diva d'eccezionale minimalismo post-moderno.
09/08/2016