Inutile nascondere una certa "ansia" legata al ritorno di Solange Knowles. “A Seat At The Table” è stato per certi versi il suo spartiacque. Il distacco dalla navetta madre e l’addio definitivo all’ingombrante confronto con la sorella maggiore. Ma non solo. Il 2016 è stato l’anno in cui Solange ha dimostrato di poter fattivamente ambire all’eredità di Erykah Badu attraverso una prova art-soul convincente, personale, parecchio distante dal pop formato Janet Jackson della prima ora. A rafforzare poi questo palese allontanamento dall’universo mainstream sono stati i suoi show, praticamente opposti a quelli dell’amata sorellona. Esibizioni che l’hanno vista immergersi tra la folla, cantare con il proprio pubblico, spesso in piccoli teatri.
Al di là dei videoclip al solito curatissimi in ogni minimo particolare, soprattutto grazie al marito regista Alan Ferguson, spesso e volentieri al suo fianco dietro la macchina da presa, Solange ha intrapreso un percorso tanto coraggioso, quanto opportuno. Un cammino irto di divagazioni arty e rimandi al soul d’annata che la pongono come una sorta di fusione postmoderna a metà strada tra Minnie Riperton e la divina Lauryn Hill. Un ibrido apparentemente androide e, nella sostanza, altamente "carnale".
Dopo avere anticipato il suo rientro con un paio di brevi teaser, Solange ha rilasciato a sorpresa il suo quarto album, intitolato semplicemente "When I Get Home". Scritto, prodotto e in gran parte eseguito da lei stessa, il disco presenta il consueto parterre di ospiti illustri, pescati per l’occasione da mondi paralleli e distanti: Tyler, The Creator, Cassie, Playboi Carti, Panda Bear, Sampha, Gucci Mane, Steve Lacy e Abra. Una compagine variegata, il cui compito è accompagnare la compositrice soul di Houston in quello che si presenta come un omaggio alla propria città. Un ritorno a casa. Una sorta di “Blue” in salsa black. Principalmente "una lettera d’amore", come dichiarato in sede di presentazione.
Ebbene, al netto delle sorprese, dei featuring e delle dichiarazioni d’intenti, “When I Get Home” è un disco estremamente frastagliato, un concept il più delle volte inafferrabile. Certo, non manca la cura certosina dei dettagli, e i suoni sono sempre ammiccanti, come da tradizione. Tuttavia, traccia dopo traccia, la faccenda comincia a ingarbugliarsi lemme lemme e non c’è nemmeno l’ombra di recenti hit del calibro di “Cranes In The Sky” e “Don't Touch My Hair”.
Dopo una celere intro e il solito intermezzo (pratica ormai fastidiosissima), “Down With Clique” apre le “danze”, ed è decisamente un gran bel sentire. Un affresco stiloso, art- soul quanto basta per fornire all’ascoltatore quali saranno i suoli immacolati da calpestare lungo il percorso. Il rimando estetico legato alla vista dei graffiti presenti a Houston funge solo da traino a quella che musicalmente rappresenta una vera e propria ripresa degli stilemi di Thundercat. L’eclettico bassista losangelino e il suo jazz cosmico aggiornato e riletto tecnicamente financo in chiave prog (!) incarnano il modello principale al quale aspira Solange in questa sua opera. E’ lui la guida suprema e "nascosta". Il vertice a cui tendere.
Una cifra stilistica, quella del buon Butler, parimenti difficile da eguagliare. Eppure, è da questa considerazione che bisogna partire per sondare al meglio un album complesso e poco piacevole nei primi ascolti come “When I Get Home”. E’ il basso smanioso che entra a gamba tesa in diversi pezzi ad animare ritmicamente l'opera. La successiva “Stay Flo” amplifica tale inclinazione seguendo ritmi gigioni opportunamente coperti da suadenti vocalizzi e una tastiera concisa e dolce come un bignè. I due minuti e mezzo scarsi di “Dreams”, con il passo ancora una volta smorzato, espongono addirittura una celerissima coda curata niente di meno che da Earl Sweatshirt. E’ una delle tante ballad aliene che si susseguono tra un sample e l’altro, come piccoli bozzetti disegnati con calma ma gettati via in fretta.
Il richiamo trap non poteva poi di certo mancare, e a renderlo vivo è la presenza di Playboi Carti in “Almeda”, al quale Solange affida la cura dei kick in loop da affiancare alla parte strumentale (prodotta addirittura con Pharrell e John Kirby). Si tratta di un altro episodio indecifrabile, un vero e proprio schizzo la cui scia segue traiettorie stranissime, opportunamente vaghe. E c’è anche il beatmaker Metro Boomin, ad aggiungere (come se non bastasse) ulteriore “follia” all’insieme.
Le linee melodiche più fruibili e “compiute” del passato tornano a illuminare l’atmosfera nella meravigliosa “Time (Is)”, con l’amico Sampha in appoggio, a cui si uniscono Tyler, The Creator e Panda Bear. Ecco, pensate solo per un istante alla delicatezza “lounge” di Clara Hill messa al servizio di una cricca di manipolatori della Stones Throw e avrete un’idea più o meno concreta di come possa suonare questo pezzo. Nei tratti più spigolosi, Solange sembra addirittura forzare la mano, orientandosi fin troppo su partiture sbilenche con il rischio di cadere e alimentare qualche sbadiglio di troppo, de facto non atteso alla vigilia.
Ben altre passioni muovono invece “My Skin My Logo”. Solange e l’amico Gucci Mane cantano dell'amore per l'alta moda, tra gradevoli sussurri, un’invocazione fashion e un'improvvisa accelerazione nel finale: “Gucci like to swang, Gucci like to sway/ Gucci like to come down, and he start just every day (Huh)/ Gucci like to play, Gucci like to play (Yeah)/ Gucci like to come down in his thought, just he eat plain/ Gucci fly, Gucci got that eye”. Il fantasma di Thundercat torna in “Jerrod”, altra ballata lunare nella quale non si capisce bene dove la Nostra voglia andare a parare, al netto delle articolazioni di fondo. Il battito liquido e trascinante di “Pinz” riporta a sua volta tutto in un climax più nitido, con i sinuosi coretti in avvio e un refrain finalmente “compiuto”. L’ipnotica “Sound Of Rain” riavvia il nastro ulteriormente e indica l’ennesima fuga verso “l’altro”.
La sensazione finale è quella di trovarsi dinanzi a un’opera in fondo estremamente complessa. Un concept intimo e sfuggente. Uno di quei dischi da ascoltare e riascoltare, da "assaporare" con il decanter al proprio fianco e senza lasciarsi tradire dal richiamo delle sentenze facili. Il fascino di "When I Get Home” è anche questo suo essere "volutamente irrisolto". Insomma, prendere o lasciare.
07/03/2019