Peter Gabriel

Peter Gabriel [aka IV, Security]

1982 (Geffen)
art-pop, world music

Il 21 aprile 1836, sulle sponde del fiume San Jacinto, l’esercito Texano sconfisse le armate Messicane insanguinando la piana dell’attuale Houston dei corpi di più di seicento soldati. A più di duemila kilometri di distanza, in California, un’altra San Jacinto separa la città di Palm Springs dalla riserva indiana di Agua Caliente. Quale delle due, o delle innumerevoli altre sparse per gli Stati Uniti, è  la “San Jacinto” di Peter Gabriel? E’ impossibile scoprirlo.

World music, attivismo, geografie astratte

Gabriel canta della neve e di una montagna, ma presso Houston di picchi innevati non ce ne sono. D’altra parte, l’ispirazione venne all’artista dall’incontro con un Apache, popolo diffuso in Texas ma non in California, come del resto il bisonte più volte citato nella canzone.

“San Jacinto” è dunque un luogo immaginario, una finzione artistica; proprio come lo è la world music secondo Peter Gabriel. Un’alchimia di studio, in cui convergono siti e culture distanti, tradizioni secolari e gli ultimi, futuribili ritrovati della tecnologia musicale. Lo scopo non è ritrarre la realtà. Affermò Paul Klee:  “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Lo svelamento: ecco l’obiettivo di “San Jacinto” e delle altre geografie astratte dell’album che la contiene.
La spiritualità olistica dei pellerossa, la vuotezza culturale dell’America delle steakhouse, l’angoscia della battaglia tra due eserciti ugualmente invasori di una terra non loro: tutte queste immagini si fondono nelle ermetiche strofe di “San Jacinto”, e dicono tutto il dramma di una civiltà millenaria cancellata in un attimo, spazzata via come il bisonte dalle sue praterie. Così quell’”I hold the line” del ritornello, voce sofferta dell’Apache che sente i sensi venir meno dopo il morso di un serpente, diventa quella del soldato che si sa condannato ma resiste con ogni forza, e d’un tratto la voce dell’intera nazione indiana che disperatamente cerca di tener sé stessa viva.

Questo quarto album da solista – intitolato “Peter Gabriel” nel Regno Unito, “IV” in Italia e “Security” negli Stati Uniti – è senza dubbio il personale contributo dell’artista alle lotte per l’identità, la libertà e l’uguaglianza portate avanti in mezzo mondo. “Wallflower”, che affronta il tema dei Desaparecidos sudamericani,  si inserisce nel filone di “Biko” dell’album precedente ed è in sintonia con gli analoghi sforzi attivistici del Paul Simon di “Graceland”. Ma la sua coda va ben oltre la generale solidarietà politica; è un manifesto artistico, la commovente dichiarazione d’intenti di un musicista che non vuole arrendersi alla decimazione della ricchezza culturale del mondo per mano della società occidentale: “Though you may disappear, you're not forgotten here/ And I will say to you, I will do what I can do”.
Era il 1982: due anni prima, Gabriel aveva dato vita al WOMAD (World of Music, Arts and Dance), festival indipendente per la promozione della diversità culturale tramite la musica. Nel 1989, fonderà la Real World Records, ancor oggi casa di una lunga serie di progetti che vedono artisti di tutto il mondo e di ogni estrazione musicale lavorare fianco a fianco.

Alle radici del sound

Salvare una tradizione, per Peter Gabriel, non è chiuderla in una riserva dove possa conservarsi così com’era. Al contrario, è farla vivere nel presente, darle modo di confrontarsi con le altre. E perfino proiettarla nel futuro. Per questo i dischi Real World non saranno ricostruzioni più o meno filologiche di un perduto stile originario, ma coraggiose esplorazioni musicali che muovono da background tradizionali abbracciando i più recenti strumenti espressivi. E per lo stesso motivo proprio “IV” è in primissima linea nella sperimentazione sonora, sia come strumentazione che per le strutture compositive.

Tra i primi acquirenti del costosissimo computer/campionatore Fairlight CMI, Gabriel ne fa in “IV” un utilizzo pionieristico. Essenzialmente il primo sintetizzatore commerciale a sposare sintesi additiva, processori 8-bit e avanzate tecniche di calcolo numerico (trasformata di Fourier veloce), il Fairlight è protagonista assoluto del sound del disco. Anziché impiegarlo come lussuoso “simulatore di orchestra” o come ennesimo tastierone galattico da aggiungere al proprio arsenale post-settantiano, tuttavia, Gabriel spinge lo strumento in territori musicali del tutto inesplorati – e inesplorabili – in precedenza. Il Fairlight diventa infatti una “macchina dei miracoli” capace di rendere musica ciò che musica non è mai stata: rumori, soffi, schianti, ogni genere di spiffero e tramestio. Un filmato dell’epoca mostra l’artista aggirarsi per una collinetta di rottami industriali armato di microfono ed entusiasmarsi a ricavarne i suoni più bizzarri, poi assemblati a formare il febbrile mantra di “The Rhythm Of The Heat”.
“IV” sviluppa inoltre innovazioni già introdotte nel precedente album. “I Have The Touch”, “The Family And The Fishing Net”, “Lay Your Hands On Me” perfezionano l’uso del gated drum messo a punto per “Intruder” (una combinazione di riverbero, compressione e noise gate che danno alla cassa un effetto particolarmente “scuro” e poderoso), mentre “Kiss Of Life” estende l’espediente ad altri filtri per ottenere suoni di batteria sempre più “su misura”. Il sound del disco è reso ulteriormente dinamico e proteiforme dall’impiego da parte del bassista Tony Levin del Chapman stick, strumento a dieci corde che è suonato in modo percussivo con la tecnica del tapping.

Le atmosfere di “IV” sono dunque lontanissime da quelle scintillante raffinatezza di altre band che all’epoca trafficavano con synth come il Fairlight. Al contrario, sono inquiete, magmatiche, ossessionanti. Accentuano il clima nervoso il ricorso a tempi dispari (“Kiss of Life”, col ritornello in 10/4), disorientanti scale minori di derivazione mediorientale, incastri strettamente imparentati coi King Crimson di “Discipline” e il David Bowie di “Scary Monsters (and Super Creeps)”. Tutto sembra orientato a evocare tensione, sprigionare brividi lungo la spina dorsale dell’ascoltatore, farlo convivere per i quarantacinque minuti di durata del disco con una presenza indicibile e allarmante. Qualcosa che sfugge, resta sorda e confusa come un peso sullo sterno, ma indiscutibilmente c’è.

La scimmia smascherata

Ciò che Peter Gabriel porta a galla in "IV" è un'anima profonda, uno spirito atavico che respira nella voce "soffiosa" dell'artista, è il verso sintetico e cavernoso di sfondo a "The Family and the Fishing Net", si fa percepire nei controcanti di Peter Hammill in "Shock The Monkey" e "Lay Your Hands on Me". Ecco l'oggetto dello "svelamento" condotto dalle geografie astratte del disco: l'inconscio collettivo, l'"ombra" che secondo Carl Jung accomuna e accompagna ogni essere umano. L'iniziale "The Rhythm Of The Heat" prende spunto proprio da un'esperienza dello psicologo svizzero con percussionisti tribali; il suo titolo in fase di lavorazione era "Jung in Africa".
"IV" non è solo la celebrazione della ricchezza culturale dell'uomo, né soltanto lo smascheramento del complesso di superiorità occidentale: è il ritratto della nostra specie tramite le sue usanze e reazioni inconsce: un animale divorato dall'istinto in "Shock The Monkey", che brama la fiducia del branco e il contatto fisico in "I Have The Touch" e "Lay Your Hands On Me", si affida ciecamente a intricati rituali matrimoniali in "The Family And The Fishing Net", è posseduto dalla musica in "The Rhythm Of The Heat", colto dalla trance in "Kiss Of Life", condotto in paradiso dal dolore, le visioni naturali e i synth cristallini di "San Jacinto".

Il quarto album di Peter Gabriel ha venduto milioni di copie, sfondato nel mercato americano - dove è stampato col titolo "Security" - grazie al singolo "Shock The Monkey", aperto le porte al boom della world music ed esercitato un'enorme influenza su molti altri territori musicali grazie al suo rivoluzionario uso della strumentazione. Ma la sua unicità sta altrove. Più dei testi, più ancora dei suoni e delle strutture è forse un'immagine a simboleggiarla nel modo più efficace: il volto del cantante dipinto con le fattezze di una scimmia, come in tutto il lungo tour che accompagnò l'uscita del disco. Una maschera bestiale che si contorce, geme, strilla, esulta alla vista dei suoi simili, in un groviglio di emozioni incontrollate che più di ogni altra cosa svela la natura - profonda, comune, immortale - delle nostre radici.

14/10/2012

Tracklist

  1. The Rhythm of the Heat
  2. San Jacinto
  3. I Have the Touch
  4. The Family and the Fishing Net
  5. Shock the Monkey
  6. Lay Your Hands on Me
  7. Wallflower
  8. Kiss of Life

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