Peter Gabriel
So
(Virgin, 1986)
Se credessi agli eventi, mi verrebbe spontaneo dire che questo disco "è" un evento. Sono passati ormai undici anni da quando Peter Gabriel ha lasciato i Genesis (il gruppo che ormai si identificava con lui), quattro anni che non incideva un album in studio ("Birdy" era una colonna sonora montata sotto forma di collage), diversi mesi che si aspettava l'uscita di questo disco. Chiamarlo ancora col suo nome sarebbe stato troppo facile (non certo banale, la banalità è una parola assente dal vocabolario di Gabriel); meglio, quindi, definirlo semplicemente "So". Non è in fondo un azzardo che un suo disco, nel 1986, possa uscir fuori "così". Peter Gabriel è arrivato ormai da un pezzo al punto di permettersi senza forzature uno spettacolo in continua trasformazione; nessuno lo bracca più come un lupo da stanare ai margini del bosco. Gabriel ha preso ogni suo treno senza mai aspettare il fischio del capostazione. La sua storia è quella di un artista che non ha mai smesso di guardarsi allo specchio e di espandere la realtà oltre gli schemi della vita quotidiana.
In questo suo nuovo disco c'è tanta tecnologia quant'anima. E quest'anima si chiama ancora ritmo. Un ritmo potente che finisce per colmare tutto lo spazio sonoro con la regolarità di un battito cardiaco, la profondità di un incantesimo ripetuto all'infinito, la semplicità e l'efficacia di un gesto proveniente dal fondo del tempo. Questo suono non somiglia a niente di conosciuto: è ancora qualcosa d'incredibile, di nuovo, d'inedito, di uguale soltanto a se stesso. Il disco precedente era già spogliato dei ritmi binari, delle percussioni tradizionali. Questo va ancora più avanti. Gli otto pezzi che contiene sono altrettanti inni al futuro, delle ballate sincopate che gettano un ponte verso gli anni Novanta. La voce di Gabriel è sempre là: trasporta delle parole e delle frasi, dei paesaggi tormentati, delle storie oscure, dei temi che ritornano per mantenere un aggancio con lo schema armonico di base. Ogni tanto, come già negli album precedenti, ci sembra di scorgere qualche tratto somigliante a "The Lamb Lies Down On Broadway", ma è soltanto un segnale. Gabriel ha scelto di lasciar parlare i suoni, i temi, i ritmi, per se stesso; ricavando tutta l'energia possibile dal contrasto elementare tra le modulazioni degli strumenti elettronici e le intonazioni della sua voce (vicina come mai al suo primo maestro Otis Redding).
I numerosi collaboratori che lo circondano in questo "So" sono l'ennesima testimonianza della sua statura artistica e del suo carisma intellettuale: ci sono i soliti Jerry Marotta, Tony Levin, David Rhodes, il produttore e tecnico del suono Daniel Lanois, un favoloso batterista francese, Manu Katché (una scoperta di Gabriel), una sezione fiati guidata da Wayne Jackson, ed ancora L. Shankar, Richard Tee, Stewart Copeland, Kate Bush (già con Gabriel ai tempi del suo terzo album), Jim Kerr dei Simple Minds e Michael Been dei Cali (con i quali aveva già cantato in "Everywhere I Go"). Una prestigiosa équipe che contribuisce a fare di questo "So" un album comparabile per la profondità dei tempi e per la ricchezza del linguaggio a "The Dream Of The Blue Turtles" di Sting.
Il modo che ha Peter Gabriel di suggere la linfa vitale da tutte le più disparate matrici musicali ha ancora dell'incredibile. Lui è un esperto nel trapianto del midollo (della nuova arte, della nuova espressione), anche se non lo si vedrà mai dalle parti di Kiev.
(da Rockstar, 1986)