Figlia di un ebreo sefardita di origine egiziana e di una inglese, la Atlas, che oggi vive a Washington, è cresciuta in un sobborgo marocchino di Bruxelles, imparando presto francese, arabo, spagnolo e inglese. È qui che ha appreso la tecnica "raq sharki" di danza del ventre, che continua a eseguire nei suoi concerti mandando in delirio il pubblico. Ma, ancora più della danza, a impressionare è la sua voce, che copre tutte le ricchezze timbriche della tradizione araba, riuscendo a essere insieme emozionante, immediata ed evocativa. Uno stile a metà tra il canto tipico mediorientale e i vocalizzi onirici di Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins. "Canta come un usignolo appollaiato su una coppa di diamanti", ha scritto di lei la rivista britannica Melody Maker. La formula magica della cantante egiziano-belga è frutto di anni di contaminazioni. A partire da quando Natacha, adolescente, si è trasferita in Inghilterra ed è diventata la prima cantante rock araba di Northampton. Poi, dividendosi tra l'Inghilterra e il Belgio, ha continuato a cantare in una moltitudine di night-club turchi e arabi, con l'eccezione di una parentesi in una band belga di salsa, i Mandanga.
Ma ad aprirle la strada sono state le collaborazioni inglesi, soprattutto quella con i Transglobal Underground, che la Atlas ha accompagnato come prima cantante e danzatrice del ventre in diversi festival internazionali, da Glastonbury al Womad, la manifestazione di musica etnica ideata da Peter Gabriel. Con la band ha anche inciso due album Dream Of 100 Nations e International Times.
In questo crocicchio di suoni e linguaggi, brillano autentiche perle come il singolo "Mistaneek", affascinante fusione di pulsazioni dance e suggestioni mediorientali, o come la ballata franco-araba di "Mon Amie La Rose", ovvero - spiega Natacha - "un rifacimento a modo mio, in forma di lamento, di una delicatissima canzone interpretata da Françoise Hardy più di trent'anni fa".
Le canzoni di Gedida sono ballate lievi e impalpabili, che cantano soprattutto l'amore, il sentimento e le emozioni senza tempo. Sul suo stile musicale, la piccola Natacha - 156 centimetri tacchi compresi, splendidi occhi verdi, forme giunoniche come si confà a ogni belly-dancer di razza - ha le idee molto chiare: "Qualcuno ha definito "nuovo raï" questo mix, mettendolo indirettamente in relazione con le cose che fanno Khaled, Cheb Mami, Rachid Taha e Bellemou Messaoud: ma io non sono per niente d'accordo", sostiene. "Io infatti, vuoi per questioni familiari, vuoi per sentimenti profondi, sono molto più vicina a un modo egiziano di intendere le cose, piuttosto che algerino. Per questo trascorro al Cairo tutto il tempo libero che mi rimane fra un tour e l'altro: per migliorare sempre più la mia conoscenza della lingua e della musica arabe. Per questo i miei modelli di riferimento privilegiato sono i grandi cantanti della tradizione egiziana antecedente allo "shaabi". Tutta gente che potrebbe interagire benissimo con i 'miei' mostri sacri d'Occidente: Sinead O' Connor, Asian Dub Foundation e, soprattutto, Björk, una chanteuse con cui mi piacerebbe moltissimo collaborare in futuro".
Alla quarta prova da solista, Natacha Atlas torna a stupire con le sue ardite contaminazioni tra folk arabo e pop europeo. Anche Ayeshteni, infatti, è un disco di confine, poliglotta, ricco di sfumature e di timbri musicali. Incantevoli occhi verdi e curve giunoniche da belly dancer, l'egiziano-belga mette ancora in mostra una voce unica, capace di fluttuare libera da un omaggio in salsa trip-hop alla tradizione francese, con "Ne Me Quitte Pas" di Jacques Brel, a una stupefacente cover di "I Put A Spell On You" di Screamin' Jay Hawkins, affogata in un mare di archi egizi e percossa da un battito hip hop. Sono prove azzardate, che altre voci rischierebbero di affondare nel kitsch, ma quello di Natacha Atlas è un canto sempre elegante e al tempo stesso imprevedibile, dalle infinite suggestioni ed escursioni di registro.
A dare ritmo al disco, però, sono soprattutto i pezzi in arabo: dalla seducente "Ashwa" alla iperdilatata "Mish Fadilak", dalla melodia ipnotica di "Rah" alla dance elettronica di "Manbai". Una progressione nell'anima più sensuale della musica mediorientale, unita a uno spiccato gusto per il pop sofisticato, per quei bassi dub cari ai Transglobal Underground (che hanno prodotto una delle tracce, "Soleil D'Egypte", cover di un brano degli Zebda) e per le percussioni più ossessive.
Se talvolta il rischio di ripetitività è in agguato, resta comunque il fascino di questo viaggio sonoro senza confini condotto al suono di una voce spettacolare come quella di Natacha Atlas.
Nel frattempo, Natacha Atlas è diventata una delle vocalist più richieste della scena internazionale, come conferma anche la sua partecipazione al disco di Franco Battiato "Ferro Battuto". Ma il suo desiderio più grande è che i suoi dischi vengano "ascoltati e diffusi anche in Egitto", dove per ora, nonostante alcune timide aperture degli ultimi anni, "parlare di queste faccende è ancora proibito". Foretold In The Language Of Dreams (2002) è una collaborazione con il compositore Marc Eagleton (Temple of Sound). Natacha Atlas mette i suoi vocalizzi suggestivi al servizio di una formula esoticamente elettronica, ma il disco non aggiunge granché di significativo al suo repertorio.
L'elettronica sinuosa di "Daymalhum" e "Janamaan" trascina Something Dangerous (2004), nuovo melange poliglotta (in arabo, inglese e francese), che mescola un ritmo dancey arabeggiante con pop e r'n'b. La formula tuttavia comincia mostrare la corda e la Atlas sembra aver smarrito il filo del suo discorso musicale. L'intensa cover di "It's A Man's World" di James Brown conferma comunque le straordinarie doti vocali della ex-Transglobal Underground.
Ma è in vorticose danze del deserto come "Hayati Inta", "Bathaddak" e "Haram Aleyk" che l’istrionismo della belly-dancer di Bruxelles riesce a esprimersi appieno, liberando la carica sensuale che l'ha resa celebre, in una casbah di percussioni e canti berberi. A mantenere il contatto col trip-hop bristoliano è rimasta soprattutto "La Lil Knowf", dove il canto di Natacha trova un contrappunto maschile in Clotaire K e Sofiane Saidi, sotto un battito ora più serrato. Esito contraddittorio, invece, per i due brani che "osano" di più: se "Ghanwah Bossanova" amalgama mirabilmente timbri mediorientali e morbidezze brasiliane, il tentato abbraccio con l'universo hip-hop di "Feen" (con Princess Juliana) si sgretola attorno a un ritornello scipito e a un andamento r'n'b di maniera. Chiude degnamente l'album il ricamo acustico di "Yariet", tra luccichii di corde e arabeschi vocali.
La ricerca sul sound pecca talvolta di artificiosità - il che, per un disco che si propone un ritorno alle radici, non è difetto da poco. E manca la traccia in grado di assestare il colpo da knock-out all'ascoltatore. Non sarà dunque quel disco "incredibile" che il titolo vorrebbe far intendere, ma Mish Maoul offre comunque un nuovo saggio delle capacità mesmeriche di Mademoiselle Atlas, la più sapiente incantatrice di serpenti dell'ethno-pop contemporaneo.