Dieci anni sono passati dal precedente "Us", durante i quali sono circolate poche notizie contraddittorie sul nuovo disco di canzoni in preparazione, poi "Ovo" (deludente) e la colonna sonora "Long Way Home" (non pervenuta). Peter Gabriel non ha bisogno di visibilità, l'assenza ha fortificato anzi la sua immagine a metà tra pop e avanguardia, è un totem stimato trasversalmente non solo da vecchi nostalgici, ma anche da suffragetti della world music e da nevrotici dei suoni e ultrasuoni (come dire la musica come sociologismo e come psicologismo). Adesso "Up" è qui tra noi, si può rigirare tra le mani guardando un vecchio filmato dei Genesis: fuori gli altri, Gabriel è roba nostra.
Il pezzo iniziale, "Darkness" parte con una marcia che non sarebbe stata male in un disco dei King Crimson, poi il pezzo improvvisamente rallenta e interviene il cantato con accompagnamento pianistico; tutto il brano è giocato sull'alternanza vuoto/pieno, con improvvise sfuriate che interrompono una bella e non banale linea melodica. Poi la voce: Gabriel possiede una delle voci più emozionanti del rock assieme a Robert Wyatt e David Sylvian; anzi, non si commette un'eresia ad affermare che il timbro è molto più bello e interessante adesso di trent'anni fa.
Proseguiamo fiduciosi con "Growing Up", che parte con il mellotron (!) ma poi ben presto si trasforma in un pezzo ritmico tipico di Gabriel (alla "Steam", tanto per intenderci), il brano non è scontato come potrebbe apparire ad un primo ascolto e, caratteristica di un po' tutti i brani di "Up", il centro melodico ha un che di sfuggevole e poco memorizzabile. Si comincia però ad avvertire il sospetto di un disco incentrato molto sulla cura dell'arrangiamento, un disco più di suoni che di canzoni. Il sospetto diventa certezza al terzo brano "Sky Blue", accattivante certo, però anche un po' povero di idee e scontato. Le due tracce successive ci risollevano, "No Way Out" e "I Grieve" sono due splendide finte ballate alla Gabriel, dense, tese, crepuscolari, adulte, profonde; "I Grieve" poi è forse l'highlight del disco. Arriviamo alla conosciuta "The Barry Williams show", bello il testo e il video, ma il pezzo, comunque non disprezzabile, non "entra" e non coinvolge neanche dopo vari ascolti, e quindi, per lo meno come singolo, non funziona.
Le successive "My Head Sound Like That" e "More Than This" sono curatissime nell'arrangiamento, ma alla fine rientrano in un cliché consolidato, brani che non prendono forma e non decollano nel loro dispiegarsi ora pacato ("My Head...") ora sostenuto ("More Than This"), brani complessi, molto tecnici, certo non brutti e gestiti con grande mestiere, ma di scrittura un po' deludente e poco emozionale. Ci riprendiamo con "Signal To Noise", brano splendido nel suo unire gli orientalismi di "Passion" (affascinante il cantato di Nusrat Fateh Ali Khan) con il sinfonismo più epico e teatrale, in un finale in crescendo. "The Drop", con poche note di piano che accompagnano la voce, chiude il disco.
"Up" è un disco notturno, a volte anche plumbeo, riuscito nel tentativo di convogliare un esistenzialismo introverso in una forma-canzone formalmente ineccepibile ed estetizzante, ma anche un disco dove una produzione eccellente a volte sopperisce, o tenta di farlo, a qualche carenza compositiva e di ispirazione. In tal senso un disco moderno e in linea con i tempi. Alla fine, un deciso passo indietro rispetto al precedente "Us" e forse il disco non "anomalo" di Gabriel meno convincente dopo "So". Non vi pentirete dell'acquisto, però dieci anni sono tanti...
27/10/2006