Yma Sumac

Mambo!

1954 (Capitol)
mambo, exotica

Tra leggenda e realtà

Si può anche non credere ai segni del destino, ma se all'anagrafe ti registrano Zoila Augusta Emperatriz Chávarri del Castillo, magari è difficile ritrovarsi a fare la fornaia. E nel caso di questa celebre Regina dell'exotica, i confini tra verità e leggenda vengono spesso volutamente confusi nel tentativo di creare un immaginario che vada di pari passo con l'enorme potere evocativo della musica, come a rendere ancor più calzante quell'altisonante nome di battesimo.

Nata nel 1922 e cresciuta a Ichocán, minuscolo villaggio indigeno di duecento anime appena nella Cayamarca, una regione nel nord del Perù, la piccola Zoila adotta il nome d'arte Yma Sumac, che in lingua quechua significa qualcosa come "quanta bellezza". Il governo peruviano sostiene che la cantante sia una discendente della stirpe regale degli Inca - sua madre, in effetti, porta il cognome Atahualpa, come l'ultimo imperatore catturato e ucciso dal conquistador Francisco Pizarro nel 1533, ma non vi sono prove di tale relazione. Secondo la ben più cinica stampa americana, Yma Sumac sarebbe in realtà Amy Camus, una casalinga di Brooklyn.
Anche la storia della delegazione governativa che da Lima viene mandata in Cayamarca alla ricerca di questa impressionante leggenda locale pare sia una congettura pubblicitaria, orchestrata invero alquanto furbescamente in un periodo in cui il Perù sta rivalutando le proprie radici indigene - la "riscoperta" del Machu Picchu, da parte dell'esploratore americano Hiram Bingham nel 1911 ha fatto il giro della stampa internazionale, ammantando il luogo di mistero e presto ambita mèta turistica.

Ma la leggenda si sospinge anche da sola; Yma Sumac è una donna carismatica, austera e misteriosamente affascinante, dalla chioma corvina e un paio di penetranti occhi verdi, il portamento elegante e un guardaroba regale. Quando apre bocca, emette un suono ultraterreno. Nessuna, prima di lei, ha incarnato con tale efficacia agli occhi del popolo occidentale l'immaginario dell'antica civiltà Inca, principessa o meno che sia stata. Il mito di Yma Sumac sopravvive tutt'oggi alle speculazioni di vario genere come una delle più colorite e peculiari figure musicali del Novecento.
Certo, le origini sono presumibilmente più semplici. Yma Sumac incontra Moises Vivanco a Lima durante il proprio corso di studi; abile musicista nonché curioso esploratore di folklori locali, Vivanco è subito impressionato dalla presenza della ragazza. Presto i due sono sposati e partono alla volta del Pianeta, in cerca di fortuna come il più bizzarro duo folk mai visto. Verso la metà degli anni Quaranta, Yma e Vivanco atterrano a New York, dove danno concertini nei bar di quartiere fino a quando non vengono notati dal celebre compositore Les Baxter, che li mette sotto contratto con la Capitol e imbastisce con loro i primi passi discografici.
Tra Yma e Baxter v'è indubbia intesa ma anche attrito, perché la cantante ha un carattere cocciuto, volatile e focoso. Ricorda Baxter:

[...] un momento ti diceva 'ti adoro, sei meraviglioso' e quello dopo 'ti ammazzo', così nella stessa frase. Diceva davvero 'ti ammazzo' e io credevo che sarei morto lì per lì. Ma era un talento meraviglioso.
Credo che fosse molto arrabbiata con me, ma non so perché
Se esiste lo stereotipo che vuole le cantanti liriche come personalità intriganti, esose e difficili, Yma Sumac ne è sicuramente tra le responsabili, seconda magari giusto a Maria Callas. La stravaganza, peraltro, pare aumentare col livello di talento e di estensione verso l'acuto. E Yma ne possiede a vagonate.

La voce


Il Ventesimo secolo non è certo stato parco di figure capaci di toccare i registri notoriamente più impervi; le leggerissime colorature di Erna Sack, nota come l'usignol di Germania, lo squillante soprano della parigina Mado Robin, la purezza timbrica di Ingeborg Hallstein, e l'inimitabile controllo drammatico del pianissimo di Montserrat Caballé detta La Superba, irretiscono le platee di tutto l'Occidente.
Ma mentre quest'ultime signore rimangono salde entro i rigidi confini del bel canto, Yma Sumac adotta d'istinto uno stile scevro di regole per spaziare a piacimento tra i cinque Regni - Manuel De Falla le suggerisce di evitare le lezioni di canto per non perdere quella qualità timbrica e interpretativa che la rende così unica. Alcuni puritani dell'opera si diranno frustrati nell'osservare tutto questo potenziale "sprecato" su un canzoniere popolare - critiche che a breve investiranno anche l'altra incatalogabile voce di Ivan Rebroff - ma l'arte di Yma Sumac è votata non tanto alla perfezione fine a se stessa quanto alla ricerca di un'espressione umana pura e incontaminata.
Al massimo della salute, un'estensione vocale di oltre quattro ottave non le impone limiti: staccati, glissati e limpide colorature si mescolano con teatralità a vorticose discese verso il grottesco, il gutturale e l'onomatopea. Yma è capace di bestemmiare come un portuale e di duettare con un flauto come un uccellino. Ascoltare "Chuncho (The Forest Creatures)", tratta dal suo terzo album di studio "Inca Taqui" (1953), è un'esperienza paranormale, nonché esempio di un'avanguardia vocale alla quale attingeranno sia Diamanda Galas che Meredith Monk e Annette Peacock.
Da piccola andavo da sola nel bosco e ascoltavo i rumori della natura e i versi degli animali, volevo imitarli
Yma rappresenta la completa gamma espressiva della voce umana e la sua libertà viene prima del desiderio del compositore di turno, motivo sul perché non la troveremo mai seriamente concentrata nello studio dell'Opera. Del resto, eseguire la celebre aria della "Regina della notte" di Mozart sotto forma di un mambo (!) dimostra quanto poco le interessi conquistare lo schizzinoso pubblico della Scala.

Exotica, romance

Tra i puristi di musica classica, esiste anche una rigida scala valori secondo la quale le fughe di Bach e le sinfonie di Beethoven sono ritenute più serie rispetto ai valzer dei membri della famiglia Strauss o i balletti di Tchaikovskij. Una simile divisione ideologica si può osservare anche nel campo della musica orchestrale del Novecento; moderni compositori come Shostakovich e Prokofiev prendono posto nelle sale da concerto più rinomate del pianeta, mentre dalle sponde del nuovo mondo, il sopracitato Les Baxter, ma anche Martin Denny, Arthur Lyman e Juan Garcia Esquivel, vengono considerati al massimo come artigiani di dipinti da cartolina, buoni come sottofondo per un aperitivo o per colonne sonore cinematografiche. Viene coniato retroattivamente il termine di lounge - letteralmente, il "salotto buono" - quasi a volerne demarcare l'aspetto rigorosamente ricreativo. La breve e più immediata forma canzone impiegata nella lounge è già in contrasto con la complessità dei movimenti di una sinfonia.

Rimane comunque a tale suddivisione un innegabile snobismo, oltre alla miopia di non prendere in considerazione la raffinatezza di certe trovate né l'esperienza culturale degli autori, che spesso evitano la tradizione europea per affondare le mani nel jazz delle big band e nell'ampia tradizione latina. Il punto è che gli esponenti del cosiddetto fenomeno lounge sono spesso curiosi e amano divertirsi - basti sentire gli scherzetti escogitati da Esquivel, che proprio come Yma Sumac ogni tanto si distrae riadattando celebri motivi classici in colorite scorribande degne di un fumetto lisergico (fa specie la sua svergognata versione della "Turca" di Mozart). Sotto le mani di questi figuri, insomma, l'orchestra è un giocattolo vivente da esplorare in tutti i suoi registri: gli archi scivolano via sognanti come non mai, gli ottoni luccicano, i legni e le percussioni congiurano immaginari pluviali, e si fa largo impiego di strumenti dalla timbrica particolare: xilofono, vibrafono, celesta, glockenspiel e i primi macchinari elettrici come il theremin e l'onde martenot.

Questi sono anche gli anni delle fascinazioni di Hollywood per le terre inesplorate e le culture esotiche; stregoni, fattucchiere, arabi sul cammello, tribù di cannibali attorno al pentolone, pericolosi scimmioni e fiorite bellezze brasiliane infiammano l'immaginazione del pubblico come non accadeva dai tempi dei racconti di Jules Verne. In musica, viene coniato il termine di exotica per descrivere i lavori di tutti quei musicisti che esplorano - pur aleatoriamente - sonorità percepite come misteriose, arcane, antiche o tribali. Il musicista britannico David Troop descrive il genere come:
Paesaggi prefabbricati in un mondo reale
lasciando intendere anche un innegabile retrogusto kitsch e camp nell'intera operazione. Sta di fatto che l'exotica è capace di far presa su un pubblico spesso ignaro circa la provenienza originaria di certo materiale, ma assetatissimo di nuove storie.
Per un genere nato con intenti palesemente descrittivi, la vocalità di Yma Sumac è lo strumento ideale per incarnarne lo spirito in tutte le sue più esose e ricercate stranezze. E poco importa alla Capitol se lo studio del folklore da lei messo a punto col marito sia tradizionalmente solido o meno; avvolta in colorite orchestrazioni, Yma è la Regina degli Inca che incanta e seduce come una sirena di montagna - il suo ruolo nei lungometraggi "Secret Of The Incas" (1954) e "Omar Kayyham" (1956) non farà che cementarne l'immaginario di bellissima quanto misteriosa stregona coperta di piume e monili d'oro.

I primi anni 50 sono dominati dalla presenza di Baxter; il suo "Ritual Of The Savage" è una squisita collezione di lussureggianti motivi strumentali e palesi suggestioni esotiche, escogitata come da titolo per accendere l'immaginazione su racconti d'avventura e tesori perduti. La sua collaborazione con Yma Sumac e Vivanco si sugella nell'immaginifico "Voice Of The Xtabay", onirico folklore andino condito da psichedeliche striature orchestrali e una particolarissima ricerca vocale che è subito la sensazione del momento.
Trattasi dell'inizio di una decade d'oro per la cantante peruviana, la cui fama raggiunge livello mondiale: riempie le sale tanto a Las Vegas e New York (si narra venga pagata più di Frank Sinatra), quanto alla Royal Albert Hall di Londra, dove si esibisce di fronte a una giovane Elisabetta II. Il suo tour dell'Unione Sovietica, inizialmente programmato per due settimane, si allunga a sei mesi di concerti di fronte a milioni di spettatori, e viene concluso a Perm con l'incontro col Segretario di Stato, Khrushchev.

E adesso, tutti in pista (se vi riesce)

"Mambo!" è la sua collezione più accessibile e curiosamente divertente, quella che contiene alcuni dei brani più longevi nell'immaginario pubblico. Non solo, "Mambo!" è anche il disco nel quale la posticcia impalcatura dell'exotica viene sapientemente montata sopra i ritmi dell'altro grande fenomeno di costume che da Cuba e il Sudamerica ha conquistato gli Stati Uniti del dopoguerra: il mambo, appunto.
Composto quasi interamente a quattro mani tra Vivanco e l'autore e conduttore Billy May, che qui dirige la sua scoppiettante Rico Mambo Orchestra, "Mambo!" è un reperto più unico che raro: un disco esoso, stravagante e idiosincratico che non manca di confondere sia i puristi che i ballerini in pista, e che pure suona come uno dei più vivaci esempi di fantasie meticce lanciate a briglia sciolta.

Yma è in forma smagliante e inanella alcune delle sue intepretazioni più memorabili. Fa specie l'irresistibile doppietta "Gopher" e "Malambo No. 1"; la prima è un continuo saltare sopra l'andazzo dell'orchestra, la seconda si gioca su un inimitabile botta e risposta dove l'interprete se le canta e se le suona, passando di registro in registro come a voler creare una stralunata galleria di personaggi. Paradisa piumata, voce concertante, attrice e narratrice del proprio universo: il mambo di Yma seduce e conquista l'ascoltatore con un fascino irrequieto e angolare tutto suo.
L'esercito di luccicanti cornette da film dell'introduttiva "Bo Mambo" dà curiosamente spazio a uno dei motivi più onirici e riflessivi del lavoro, qui Yma non si lascia distrarre e intona una melodia folk vagamente oscura e in contrasto col ritmo. Di controparte, l'inaccessibile staccato di "Taki Rari" e "Chicken Talk" dà vita a un paio di fragorose prove vocali da brividi. Con "Five Bottles Mambo", invece, si discende nel grottesco: Yma adesso è una buffa creatura da fiaba e intona una filastrocca a ritmo di triangolo e percussioni. Il particolare "Indian Carnival" impiega come coloritura una doppia incisione di voci a richiamare il suono dei flauti cari alla tradizione dell'intera zona andina, come il pan e il siku. Mirabile, poi, la perfetta fusione tra mambo ed exotica di "Jungla", brano di pura suggestione paesaggistica: lo splendido crescendo vocale che culmina in un rumoroso segmento di percussioni, e poi ritrascina tutto in basso, dimostra un'attenzione alla dinamica del forte/piano presa in prestito dalla tradizione classica, ma opportunamente riadattata ai profumi del Sudamerica.

La pronta ristampa del 1955 aggiunge tre indispensabili tracce; con il "Cha Cha Gitano" viene creato uno straniante quanto immaginifico ponte cross-culturale che può lasciar interdetti, ma che pure rappresenta il nocciolo dell'idea di exotica: sopra un ancheggiante ritmo da ballo, Yma impiega a sorpresa il suo registro lirico più puro, degno di un'opera di Bizet, per abbracciare la tradizione iberica del flamenco e creare il più impostato dei lamenti, mentre l'accompagnamento aggiunge un tocco di chitarra acustica e l'incitare di un coro maschile. Mai cha-cha-chà fu più alieno e prefabbricato, eppure rimane impossibile non battere il piede a ritmo e immaginare le oblique figure dei ballerini in pista, condotti come burattini attaccati al filo dalla voce di una cantante che sarebbe potuta essere tanto una "Carmen" quanto una strega. Vivanco elabora il bellissimo "Carnavalito Boliviano", a cavallo tra la gioia di una festa di strada e la nostalgia di casa, di famiglia e di radici.
Palma per il momento più divertente dell'intera discografia? "Goomba Moomba": orecchiabile riff di ottoni e interpretazione rauca e gutturale, una pura suggestione squisitamente camp e gioiosamente ridicola, la cifra stilistica di un disco - e di un'interprete - che impiega talento e fantasia per creare un mondo magari falso come il cartongesso, ma nel quale tutti vorremmo vivere, almeno per un po'.

In conclusione

Non rimane molto altro da dire, se non invitare all'esplorazione dell'arte di Yma Sumac. Le piattaforme streaming sono fortunatamente ben fornite: oltre all'intera discografia della Nostra, è facile reperire i lavori principali di Les Baxter e gli altri membri del circolino lounge & exotica.
El Records/Cherry Red nel 2019 ha reso disponibile "The Quintessence", un cofanetto che raccoglie i sei album di Yma incisi tra il 1950 e il 1959 per una panoramica completa sul decennio d'oro di questa straordinaria quanto idiosincratica cantante. La sua è pura suggestione tradotta in un esperanto universale: la leggenda degli Inca, le orchestrazioni barocche, il folklore del Perù, la finzione di Hollywood, il mambo e il cha-cha-chà - di tutto di più nel viaggio immaginario della Diva di fuoco che seppe infiammare la fantasia degli anni Cinquanta.

21/11/2021

Tracklist

Prima versione del 1954

  1. Bo Mambo
  2. Taki Rari
  3. Gopher
  4. Chicken Talk
  5. Malambo No. 1
  6. Five Bottles Mambo
  7. Indian Carnival
  8. Jungla

Ristampa del 1955

  1. Bo Mambo
  2. Taki Rari
  3. Gopher
  4. Chicken Talk
  5. Goomba Moomba
  6. Malambo No. 1
  7. Five Bottles Mambo
  8. Indian Carnival
  9. Cha Cha Gitano
  10. Jungla
  11. Carnavalito Boliviano

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