"Sono interessato allo studio della musica, alla disciplina della musica, all'esperienza della musica e alla musica come un meccanismo esoterico per continuare sulla strada delle mie reali intenzioni..."
"Volevo un sistema tale da essere paragonato alle dinamiche della curiosità. Volevo avere una musica dove poter trovare divertimento"
"La parola musica indica una convenzione per definire ciò di cui mi occupo ma, solitamente e in molti modi, essa indica una limitazione"
Quando fa il suo esordio nel mondo della musica afroamericana, Anthony Braxton ha 23 anni, è il 1968 e il fondatore dell'AACM di Chicago (Association for the Advancement of Creative Musicians), Muhal Richard Abrams, lo chiama per la registrazione del suo capolavoro, "Levels And Degrees Of Light". Il suo stile è ancora leggermente acerbo, ma lascia già intravedere tutte le potenzialità espressive che di lì a poco troveranno una prima, decisiva conferma in quel "3 Compositions of New Jazz" che, insieme a "Sound" di Roscoe Mitchell è da considerarsi come il big bang di tutto l'avant-jazz a venire. Uno scardinamento delle strutture e un ampliamento degli orizzonti, con tanto di sconfinamento nell'avanguardia europea che farà epoca. E, intanto, già l'idea di utilizzare diagrammi (nel solco delle “formule” di Webern e Stockhausen) al posto dei semplici titoli delle varie composizioni: diagrammi che definiscono il campo d'azione dei vari musicisti, quasi fossero spartiti scritti in caratteri matematici. Molti di questi diagrammi restano, comunque, del tutto imperscrutabili e, come se non bastasse, finiscono per intersecare concezioni misticheggianti che davvero danno il senso di un'artista eccentrico, soggetto a crisi depressive, ma anche, di rimando, estremamente produttivo, anarchico, iconoclasta, inafferrabile. Un giocatore di scacchi, anche. E questa potrebbe dirla lunga, se solo avessimo un attimino l'immaginazione in stato di grazia...
Le idee radicali che Braxton inizia a sviluppare in “3 Compositions Of New Jazz” si basano su di una visione “controllata” dell’improvvisazione, che ha come punti nodali la filosofia e la matematica, due concetti non convergenti, ma complementari. La prima, infatti, consente all’uomo di “vedere oltre”; la seconda, invece, è ciò che quell’”oltre” cerca di organizzarlo. Inoltre, quel suono di tipo “cameristico” evidenziava anche l’inclinazione braxtoniana per le idee di Lukas Foss, il compositore americano fondatore nel 1957 di un gruppo da camera che utilizzava un tipo di improvvisazione proprio di tipo “controllato”, ovvero basata su procedure di variazione prestabilite. Ebbene, se Braxton riprese queste idee, man mano le rese così personali (si vedano anche lavori come “B-Xo/ N-O-1-47A” e “This Time”) da indirizzarle verso un’idea di improvvisazione in solitaria che doveva suscitare clamore ed innescare una vera e propria rivoluzione con la pubblicazione dell’epocale “For Alto” (1968).
"Penso costantemente alla distanza che separa la musica com'è dalla musica così come dovrebbe essere".
Primo disco per solo sax della storia (in precedenza c’erano stati solo tentativi “sparsi”, tra i quali quelli di Coleman Hawkins ed Eric Dolphy), “For Alto” sconvolge la sintassi di uno degli strumenti più importanti della musica jazz (il che, poi, di rimando, significava andare ad intaccare la stessa sintassi della musica afro-americana), utilizzando il silenzio come un vero e proprio tassello musicale (“To Composer John Cage”), scrutando il baratro da cui il rumore getta la sua luce più ambigua e riallacciandosi ad Albert Ayler nei quasi venti minuti di “Dedicated To Multi Instrumentalist Leroy Jenkins”, in cui la “poetica dell’urlo” viene vivisezionata e successivamente cristallizzata in un gioco cerebrale di stop-and-go, di ossessioni e di spasmi che di certo guarda anche al Coltrane di “Interstellar Space”. Così, nel fluire ora pacato, ora sostenuto delle sue meditazioni, questo flusso di coscienza "strutturato" lascia intravedere tutto il valore dell’organizzazione del suono e del rumore all’interno di uno spazio vuoto dove regna, sibillino, il silenzio. E, in questo vortice di rabbia e malinconia, anche il ticchettio delle dita sui tasti acquisisce finalmente un valore musicale; un valore che è, innanzitutto, ritmico-strutturale, tra nuances ed esplorazioni timbriche, sulle tracce di Helmut Lachenmann.
Con questo bagaglio di esperienze e di soddisfazioni, in esilio in Francia come numerosi suoi colleghi ("Andai in francia per la prima volta. Avevo un biglietto di solo andata e cinquanta dollari"), Braxton continua a lavorare allo sviluppo di un nuovo linguaggio improvvisativo, ricercando un vero e proprio “metodo”, in seguito definito, nelle note di “Alto Saxophone Improvisations” (1979), “conceptual grafting”. Sulla base di questa sorta di rappresentazione sinestetica, che assegna a particolari suoni determinate rappresentazioni visuali, ci si riferisce, inizialmente, all’atto improvvisativo solo tenendo conto delle sue “infrastrutture”, per cui vari fattori vengono isolati e resi significativi durante l’evento musicale. Il “conceptual grafting” non ha nulla a che fare con l’armonia di tipo convenzionale, né è previsto un tema nel senso classico del termine. Piuttosto, esso mira a chiarire “l’implicazione dinamica” degli elementi base (timbro, altezza, etc.). Se questo approccio “razionalistico” o “matematico”, che dir si voglia, sembra gelare ogni impeto passionale, tuttavia è lo stesso Braxton a precisare che le dinamiche del suono non sono, e non devono essere!, separate dalle sue implicazioni spirituali (che hanno a che fare, innanzitutto, con lo stato esistenziale di un determinato momento) e fisiche (essenzialmente, il rapporto che si viene ad instaurare tra il musicista ed il suo strumento) – aspetti che, viene sottolineato, sono da sempre alla base di varie culture africane ed asiatiche.
"Ok, sono nel sottosuolo, ma mi sento a casa..."
Così, tra una partita di scacchi, una crisi depressiva e momenti di infuocato ardore, in una Parigi resa gelida da un inverno più rigido del solito, il 25 febbraio del '72 il Chicagoano registra in una sola session “Saxophone Improvisations, Series F” (conformemente al suo approccio matematico, Braxton stabilisce per ogni tornata di improvvisazioni un numero di serie), una delle opere musicali (ci sia concesso…) più incredibili e lungimiranti del ‘900. Prolungamento ultimo di innumerevoli esperimenti sul sassofono alto, l’opera eclissa tutto l’apparato concettuale che la sostiene, dimostrando la statura gigantesca di un musicista unico. Basta ascoltare i tre stage iniziali della “Composition 8I” per comprendere il livello di stravolgimento raggiunto. Lo stesso timbro dello strumento subisce una vera e propria tortura, mentre il suono viene smembrato in micro-cellule che si susseguono in una costruzione spastica, frammentata, che, a fragilissimi accenti melodici, contrappone violentissimi slap-tonguing.
Gli sconfinati orizzonti lirici di “Composition 26 A (Dedicated to Marie–Claude Conet)” tratteggiano i primi contorni del Braxton più meditativo e “notturno”. Un'unica linea sinuosa viene modellata con eccelsa sapienza emotiva, con qualche piccolo brivido “vibrato” sul finale. E’ un’immersione impareggiabile nell’anima dell’artista, alle prese con un soliloquio che non scade mai in autismo psichico. Nella ballata di “Composition 26 J (Dedicated to Dave, Claire and Louise Holland”) il suono si arricchisce delle sfumature retroattive dell’ambiente (se ne ricorderà Evan Parker per il suo “Monoceros”). Lo sfondo sembra, contemporaneamente, annegare nel silenzio e fungere da contenitore illimitato per l’espandersi sottilissimo delle note. L'impronta "spaziale" del suono...l'importanza dei residui delle tonalità che scaturiscono dalla stratificazione di suono e contesto fisico... "E' un'estensione del mio amore per la melodia. E' un'estensione del mio amore per lo "spazio poetico...".
Il primo disco si conclude con quella che è molto probabilmente la vetta assoluta della sua produzione “solo”: la “Composition 26 B (Dedicated to Maurice McIntyre”). Le tremolanti note che la introducono sono repentinamente assalite da atroci contorsioni, in un gioco ubriaco di orrore ed euforia, per parafrasare quanto Ekkehard Jost scrisse a proposito dello stile di Ayler. Il fiato che muta in atonali escandescenze metalliche; il sound “cool” di Paul Desmond e le vibranti derive di Roscoe Mitchell, convergenti in un tappeto “percussivo” e sincopato che si immerge e riemerge da una marea montante di estasi straziata. Si ascoltano, dunque, le note trattenute sul baratro, mentre il fiato diventa acciaio liquido. Scorribande esasperate e mulinelli sonici si arrampicano furibondi su se stessi, percuotendo la serie di base ed impennandosi vertiginosamente fino al limite dell’udibile, lì dove le note rischiano di cedere il posto ad un sibilo lancinante, pronto a dissolversi da un momento all’altro. Si tratta di vere e proprie discese nell’ignoto, tra slap tonguing che sono come frustate e accordi grattugiati nel metallo. In questo continuo disintegrarsi di invenzioni, la ricodificazione della sintassi improvvisativi del sax si scontra con quella del timbro, delle altezze e della dinamica. Nel gioco di specchi tra “piano” e “forte”, di spirali filiformi ed isteriche, viene eretto un edificio mostruoso, che è palingenesi assoluta e definitiva del jazz, fatta di viscere, sputacchi, ansimi ed abomini armonico/melodici, fino alla violenta carrellata finale, esemplare e maniacale nel suo sconvolgimento radicale. Innumerevoli prenderanno nota, pochi sapranno eguagliare il maestro.
“Composition 26 D (Dedicated To Ann Taylor”) è un’altra delle sue superbe ballate dai toni sommessi e venati di malinconia, qui sulla scorta di un refrain tanto semplice quanto toccante. In “Composition 8 J (Dedicated to Buckminster Fuller)”, Braxton lavora intorno ad un pattern di 8 note, entrando ed uscendo dal recinto che di volta in volta viene costruito. Il linguaggio preso in esame in “Composition 26 C (Dedicated To George Conley”) rimanda, invece, al be-bop: frasi veloci e spigolose; narrazione vorticosa, nervosa, ondulante. Il fluire vorticoso, magmatico viene spezzato solo per accennare brevissime frasi melodiche, il cui unico scopo, in fondo, è quello di evidenziare la potenza “razionale” dell’intera composizione. In ultima istanza: una pulsazione ossessiva, che trascende, in qualche modo, il vecchio concetto di “swing”. Piccoli solchi nel silenzio. Un silenzio nitido, frastagliato di accenti crepuscolari. Un silenzio “fisico”: nella “Composition 26 I (Dedicated to June Patton”), il suono lotta contro la vertigine dell’assenza. Un microscopico amplesso di detto e non-detto, per una ballata “cerebrale” che indaga, con discrezione, il mistero che lega il suono al suo provenire-precipitare-svanire dal/nel nulla. “Ritornare là dove i nomi sono di troppo”, diceva John Cage; ovvero, come precisa Daniel Charles, “al silenzio, al regno delle evidenze… nel luogo dove nomi e cose si fondono e sono uno: alla poesia, regno dove il nominare è essere”.
L’omaggio a Philip Glass nella “Composition 26 F” si lancia in diciannove minuti di reiterazioni ossessive, la cui direttrice “orizzontale” subisce continue mutazioni, come in un isterico cardiogramma. Il minimalismo del compositore americano viene qui esaltato nei suoi caratteri più ipnotici. Al di là della “repetition structure”, il “processo additivo” viene ripercorso con ardore quasi claustrofobico, permettendogli di destrutturare, “distruggere” e ricostruire, da prospettive diverse e convergenti, alcune figure melodiche di base, miscelando minimalismo e be-bop stilizzati, il Coltrane più "free", Eric Dolphy e accenti Desmond-iani.
"Dopotutto, spesso mi sento la persona più fortunata del mondo..."
Nonostante si siano succeduti durante gli anni a venire gli esperimenti in solitaria (in opere come, ad esempio, “Alto Saxophone Improvisations” – la sua opera più compiuta dal punto di vista “teorico” -, “Wesleyan (12 Altosolos) 1992”, “Solo (Koln) 1978” e “Solo (Milano) 1979 vol. 1 & 2”), l’epifania di “Saxophone Improvisations, Series F” resta tutt’ora insuperata, non solo all’interno del corpus braxtoniano. Il lascito dell'opera è, di fatto, risultato basilare per tutti gli sviluppi dell'improvvisazione “solo”, di ogni ambito e matrice: basti pensare a Leroy Jenkins – violino, Albert Magelsdorff e George Lewis – trombone, Greg Kelley – tromba, Dave Holland – violoncello e contrabbasso, Eugene Chadbourne - chitarra, etc.. Inoltre, molte di queste intuizioni, pur essendo vicine alle cose che Roscoe Mitchell stava facendo nei suoi esperimenti dentro e fuori l’Art Ensemble Of Chicago a cavallo tra i Sessanta ed i Settanta, saranno altresì fondamentali proprio per gli sviluppi successivi della musica di Mitchell, che in opere quali “Nonaah” e “LRG/ The Maze/ S2 Examples” percorrerà strade più marcatamente braxtoniane nel ridefinire, ancora una volta, gli orizzonti sperimentali della sua ricerca musicale.
Insomma, l’alba del 1972 coincide con un momento particolare nella vita di Anthony Braxton: risiede in una città bellissima e molta calorosa con gli artisti “incompresi”; gioca spesso a scacchi con gli amici, cercando di tenere a bada una depressione imperante; intrattiene jam estemporanee con altri artisti afroamericani “in esilio”.
Forse gli costò qualcosa in termini personali, ma con quest'opera ci ha regalato una pagina indelebile del suo diario personale…
28/03/2007