Eric Dolphy

Out There

1960 (prestige/new jazz)
jazz

Il secondo lavoro di Eric Dolphy come leader di un gruppo mette fin da subito in luce le intenzioni del polistrumentista. Fin dalla copertina — che sembra uscita dalle pennellate di Dalì — nella quale viene rappresentato un contrabbasso gigante, con tanto di antenne e di un piatto da batteria innestati nella cassa, condotto da un insolito navigatore dei cieli che sorvola un enorme metronomo statutariamente posato, quasi fosse un monolite, su una grossa sfera liscia e rossiccia.
In effetti, già c’è qualcosa di surreale nel leggere dalle note del booklet gli strumenti utilizzati dai componenti del quartetto: al di là della convenzionale base ritmica composta da contrabbasso (George Duvivier) e batteria (Roy Haynes), Dolphy infatti suona, oltre al sax alto anche i solitamente inconsueti flauto e clarinetto, ma, soprattutto, sorprende non poco scoprire che Ron Carter (che qualche anno dopo sarà il bassista del quintetto stellare di Miles Davis) maneggia il violoncello.
Quasi quasi sembra un ibrido tra un combo jazz e un gruppo di musica da camera e, in effetti, l’impressione è riconfermata anche dopo l’ascolto dell’album, decisamente difficile da inquadrare in un genere musicale preciso: jazz, avanguardia, musica da camera o cos’altro?
Non è affatto un caso, a tal proposito, che, non solo con questo lavoro, ma per tutta la sua purtroppo breve carriera, Dolphy si sia attirato addosso le ire e le critiche dei puristi del jazz, gran parte dei quali non hanno riconosciuto la sua musica come appartenente al grande calderone della musica afro-americana per eccellenza.
La New Thing nel 1960 è decisamente agli albori e, in ogni caso, il sound personalissimo del Nostro non può neppure essere ricondotto sic et simpliciter al free jazz (nonostante gli evidenti punti di contatto, non si dimentichi che Dolphy stesso ha partecipato alle sessioni per la registrazione dell’album manifesto “Free jazz” di Ornette Coleman), né col disco in esame, né qualche anno dopo, con il suo capolavoro “Out to lunch!”.
Cos’è dunque “Out there”? Certamente un disco rivoluzionario (anche se senza molti proseliti), un lavoro nel quale emergono chiaramente le caratteristiche del polistrumentista, a giudizio di chi scrive uno degli artisti più sottovalutati di sempre e solo parzialmente recuperato col senno di poi. Uno dei pochi, con particolare riferimento al mondo del jazz, capace di metter un marchio a fuoco con la sua firma su ogni nota suonata, talmente è peculiare la qualità della sua musica, forse proprio perché è riuscito, pur partendo dal jazz, ad essere un musicista a trecentosessanta gradi come pochi altri. Non è accidentale la sua affinità con personaggi come Charles Mingus, altro grande artista dalle caratteristiche inimitabili, o il John Coltrane della svolta dall’hard bop verso nuovi orizzonti musicali.
Nel disco in esame tutto ciò viene fuori, già ben definito, a partire dalla titletrack, che apre il disco, dove Dolphy si cimenta con il sax alto e che, tolta la base ritmica che scorre via in maniera piuttosto lineare, lascia alquanto straniati per lo “scambio di opinioni” tra sax e violoncello (suonato per quasi tutto il disco con l’archetto), utilizzato come vero e proprio strumento solista, dopo lo spigoloso tema di apertura ad opera dei due strumenti all’unisono.
“Serene”, uno sghembo blues in minore, non cambia il discorso intrapreso con il brano precedente, salvo il fatto che il Nostro suona il clarinetto basso e trova spazio una sorta di duetto tra contrabbasso e violoncello (questa volta suonato senza archetto).
Con “The Baron” e “Eclipse” Dolphy porge i propri personalissimi omaggi a Mingus (quest’ultimo, infatti, qualche tempo prima si faceva chiamare “Baron Mingus”; “Eclipse”, invece, è stata scritta proprio dal contrabbassista), rispettivamente con il clarinetto basso in un caso e con quello in si bemolle nell’altro, mentre sfodera il flauto nella successiva “17 West”, contrappuntato con semplicità ma efficacia dal violoncello di Carter. L’effetto è più che mai da musica da camera avanguardista, salvo l’incedere imperterrito della base ritmica (c’è lo spazio anche per un piccolo break della batteria), questa si assolutamente jazz.
“17 West” sfuma (altra particolarità rispetto ai canoni jazzistici) e inizia una piccola gemma, l’interpretazione dolphiana di “Sketch of Melba” del pianista Randy Weston, di una delicatezza incredibile, sempre in bilico tra una melodia assolutamente canonica, quasi celestiale, eseguita dal flauto e lievi dissonanze, con il basso e la batteria prive di qualsivoglia accenno di swing, anch’essi quasi impalpabili, sussurrati. Un raggio di sole all’interno della poetica del disco che, proprio solare, non si può definire.
Chiude l’album “Feathers”, con un incipit contraddistinto da un’atmosfera cupa che si risolleva solo con l’entrata di basso e batteria che conferiscono al brano il giusto movimento e permettono a Dolphy di cimentarsi (col sax alto) in quello che forse è l’assolo più energico del disco. Poi il tutto si sgonfia, nuovamente, fino a spegnersi piano piano.
Non c’è poi molto da aggiungere se non, come già sottolineato, che trattasi di un disco assolutamente unico, imprescindibile per chi ama un personaggio atipico come Eric Dolphy, nonché il primo passo dell’autore verso l’apoteosi della sua carriera, quel disco che gli annali ricordano come “Out to lunch!”, classe 1964. E scusate se è poco.

24/12/2019

Tracklist

  1. Out There
  2. Serene
  3. The Baron
  4. Eclipse
  5. 17 West
  6. Sketch of Melba
  7. Feathers