Il terzo album della statunitense Jessica Bailiff (già al fianco dei Low) è nato da sei mesi di registrazioni casalinghe e da un lavoro certosino su suoni e testi, in compagnia di Jesse Edwards e Noel Keesee. Il risultato è un disco struggente, nel solco di un cantautorato intimista, epico e romantico. La strumentazione è particolarmente ricca rispetto ai precedenti dischi: oltre a chitarra e batteria, spuntano l’Optigan (sorta di violoncello), una vecchia drum machine , un mini Korg degli anni 70, un organo Hammond, uno speaker cabinet e ogni varietà di microfoni.
Più limpido e tenebroso al contempo, l’album accentua la componente acustica e le ambizioni più sperimentali di Jessica Bailiff, che lo descrive così: "E’ un disco che ha a che fare con la paura, il sogno, la perdita della creatività, dell’energia, del desiderio, dell’amore e del tempo, con la solitudine e la distanza, con i fantasmi e con le esperienze vicine alla morte che a volte ci capita di vivere". Testi tumultuosi, dunque, che vengono però quasi stemperati nel suo canto, soffice e romantico, e nella sobrietà della sua musica. Come ha scritto Chris Nosal sul "Philadelphia City Paper", Bailiff "sa fondere il meglio del rock, folk e pure esplorazioni sonore in un profondo e possente respiro". Lo dimostrano brani come l’iniziale "Swallowed", sospeso tra delicati tintinnii e arpeggi di chitarra, o come "Disappear", immerso nei riverberi di chitarra con la voce cristallina di Jessica a sussurrare dolcemente. "The Hiding Place" sfoggia un magico sitar, con sospiri in lontananza e chitarre gentilmente carezzate.
"Time is an Echo" riporta al folk delicato di Nina Nastasia ma anche alle atmosfere più eteree dei Sigur Rós, con il suo contorno di piano, basso e cimbali a indurre un senso di trance. I bisbigli di "You Were So Close" riescono davvero a togliere il fiato, creando un contatto profondo, quasi intimo, con l’ascoltatore. "Mary" è un salmo celestiale di rara delicatezza. "Disappear" riporta alla mente le litanie perse nel fuoco dai Low ma anche reminiscenze degli shoegazing e dei Velvet Underground di "Venus In Furs". Sono canzoni narcotiche, ballate "dark" tese e asciutte, con punte di liricità quasi mistica al subentrare del violino ("Hour Of The Traces", "Big Hill") o del piano ("The Thief"), ma soprattutto silenziosamente sofferte, dalla prima all'ultima. Un disco malinconico e invernale, per sognare, ma soprattutto meditare.
25/10/2006