Un giochino ozioso con cui dilettarsi leggendo qualsiasi articolo sui Magnetic Fields successivo al 1999 può essere quello di contare dopo quante battute sia menzionato l'album "69 Love Songs". Ebbene, noi ci siamo subito tolti il pensiero, poiché è impossibile non citarlo per capire l'ultima fatica del vulcanico Stephin Merritt, ammesso che questa volta ci sia davvero qualcosa da capire. Personaggio poliedrico, capace nel corso degli anni di dar libero sfogo a tutte le pulsioni pop possibili, siano esse il il neo romanticismo elettronico del progetto Future Bible Heroes, il synth pop dei 6ths (con Marc Almond e Gary Numan sugli scudi), il singolare dark-rock dei Gothic Archies, nonché la centrifuga e sintesi di tutto, rappresentata appunto dai "Magnetic Fields", il signor Merritt ha forse deciso che non è più il tempo di stupire.
Dicevamo di "69 Love Songs": giunto dopo nove anni costellati da gemme illuminanti, è l'istantanea definitiva di un artista che, in compagnia di pochi altri, rappresenta la quintessenza della miniera pop, con quell'inusitata capacità di confezionare perfette melodie che aderiscono indifferentemente tanto al folk, quanto agli esperimenti d'avanguardia, oltre che a tutto quanto ci sta nel mezzo - dal trash pop alla musica da camera. Non era obiettivamente pensabile che un album di tale portata non arrivasse a condizionare quel che Merritt avrebbe concepito dopo, vuoi anche per la sfacciata ambizione insita in un triplo cd composto di 69 canzoni d'amore.
E infatti "I" paga un dazio piuttosto pesante al suo predecessore per la completa adesione a registri ormai consolidati in termini di attitudine, negli arrangiamenti, e persino nelle melodie, nonché per la quasi totale assenza del vero punto di forza, che risiedeva nell'arte di sedurre l'ascoltatore con ambientazioni sonore sideralmente distanti fra loro, che assumevano forme mutevoli in accessibili bonsai musicali della durata di due o tre minuti.
Quel che ci viene proposto ora è un album di un'omogeneità un po' vacua, che attinge la sua stereotipata misura nei porti sicuri di mini sinfonie acustiche per violoncello, banjo, tastierine e scarne percussioni, tenute insieme dal cantato ironico-nostalgico di Merritt, che, questo c'è da dirlo, rimane sempre all'altezza della sua fama quanto a maestria nel songwriting. L'unica eccezione all'uniformità acustica imperante è data dal dance pop di "I Thought You Were My Boyfriend", che però riprende gli ormai già numerosi tributi concessi in passato da Merritt all'amato frontman degli Human League Phil Oakey.
La sensazione è che questo "nuovo album dei Magnetic Fields" assomigli più a un bignamino, al ruffiano "best of" di quanto (teoricamente) più accattivante abbiano prodotto in quattordici anni d'onorata carriera, che non a un lavoro concepito con esclusive finalità artistiche, come del resto c'eravamo abituati, quasi sempre, a sentire. Certamente in esso traspare ancora la classe del suo interprete principale, ma la continua e scoperta autoreferenzialità, in assenza di quell'eclettismo che fungeva da collante dei tanti precedenti, rimarchevoli episodi, finisce col risultare parecchio leziosa.
Forse il buon Merritt si è messo in testa di riscrivere in bella calligrafia quanto aveva già cosparso in modo assai più audace e creativo in "The Wayward Bus" o in "The Charm Of The Highway Strip", oltre che in "69 Love Songs", e che con l'Io ("I") presente in tutti i titoli dei brani abbia voluto suggellare una sorta di narcisistico e forse giustificato autocompiacimento per quanto è riuscito a creare negli anni grazie alla sua arte. Per questo, "I" potrà persino suonare come un disco gradevole alle orecchie di coloro che si avvicinano per la prima volta ai Magnetic Fields, ma lascerà verosimilmente l'amaro in bocca a chi già conosce e ama l'universo Merritt, così particolare e variegato, e che tanto ha inciso sul pop degli ultimi quindici anni.
12/12/2006