Quattro "donne" dai background differenti s'ingegnano per creare suoni adatti a un mondo oscuro e meccanico. Elaine Radigue è stata allieva di un certo Pierre Schaeffer e nella sua vita ha sempre cercato di creare un connubio estetizzante tra suoni e immagini. Le sue performance sanno di avanguardia quanto di innovazione elettronica e sono piacevolissime. Tra le sue opere, da segnalare "Kyema" e "Jetsun Mila". Due lavori caratterizzati da un approccio isolazionista, un continuo distruggersi d'una melodia creata per essere uccisa. Kaffe Matthews è una delle artiste più attive nell'ambito dell'elettronica applicata alle immagini, e dimostra appieno le sue capacità nelle performance dal vivo.
Negli anni è riuscita a trovare un perfetto equilibrio tra sperimentazione digitale e rappresentazione visiva. Realizza suoni per ambientazioni reali (club, gallerie d'arte, sale da concerto, caffè, barche ecc.), collabora con i maggiori rappresentanti dell'elettronica avant (Sachiko M, Ikue Mori, Marina Rosenfeld, Oren Ambarchi, Christian Fennesz) e non lesina alcun tipo di commistione artistica. Particolarmente interessante "Cd Cècile", tra bordate noise e destrutturazioni d'un ritmo mai così martoriato. Ryoko Kuwajima, insieme alla glich-pop-girl Agf (alla anagrafe Antye Greie-Fuchs), rappresenta la nuova frontiera della scomposizione digitale della voce. Sperimentalismi per un corpo ucciso, battuto, picchiato.
Il disco in questione è un lavoro calcolato nei minimi particolari, senza lasciare niente al caso. Varie influenze vengono centrifugate con il gusto che contraddistingue le quattro artiste in gioco. In "Tzungentwist" sembra di sentire una b-side di "Westernization Completed" (album di Agf), "My Within" è un tritacarne sonoro in cui si susseguono staffilate noise, pulviscoli glitch e un cantato che più spappolato di così non si può. Le frequenze disturbate di "Avoiding Shopping" scivolano dentro un tunnel fatto di ghiaccio e di acciaio.
E' un'elettronica algidamente emozionale, frastagliata di espressionismo e strutturata secondo l'emblema di un caotico convergere verso la pienezza del senso. Battono il tempo sinistre scansioni tribaloidi (si veda anche il pastiche di "Kuchen Keiki Cake"), diffuse e deformate dentro l'avvolgersi tenebroso delle voci ("Birken"). "Disaster" è pura laptop-music, tra sciabordio metallico, sfrigolio minimale e drone rumorosi. Come un microrganismo digitale sezionato al microscopio, dentro l'alveo di una profondità kosmische e avvolgente, come accade nel vortice di "Stop No. 394 Falkirk Street" o in quello, più magmatico, di "Prologue".
Se "Aikokuka" è un simpatico intrecciarsi tra animi orientali e pugnalate digitali, con fiotti di sangue che scorrono ovunque, e "Funeral" rappresenta uno dei pezzi di ambient isolazionista più completi e concisi mai ascoltati nel 2005, dal canto suo, "Heimat" sviluppa ulteriormente l'incrocio febbrilmente austero tra corpo digitale e anima post-romantica. Il suono, il suo oblio manifesto e, al contempo nascosto, con bleep che schizzano ovunque, si ritrova ridotto a dover fare i conti con la nitida e assoluta consapevolezza di un'assenza, percepibile come un vuoto marginale eppure meticolosamente condottosi lungo i bordi della percezione. E non è un caso, dunque, che il disco scivoli via con una "Overture", al passo confuso ma sommativo di un'elettronica che sembra voglia aprire, o quantomeno additare con estrema decisione il suo futuro più lontano.
10/05/2012