“La mia prima canzone alla Atlantic fu "Just Out of Reach of My Open Arms" che è una canzone country. Ho sempre amato questa musica ed è sempre stato un mio desiderio registrare un disco country” (Solomon Burke, 2006, intervista a Blogcritics magazine)
C’è una scena famosa e divertente nel film capolavoro di John Landis “The Blues Brothers” in cui la r’n’b band di Jake e Elwood ruba un ingaggio e si ritrova in un locale country con il pubblico che, non appena la band attacca un pezzo, tira loro contro bottiglie di birra che si infrangono su di una rete da pollaio messa a protezione del palco; decidono allora di continuare la serata placando le ire dei cowboy con i soli due pezzi vagamente country che conoscono: il tema della serie “Rawhide” e “Stand By Your Man” di Tammy Wynette.
Questo episodio era per spiegare in modo scherzoso quanto il mondo del country sia estraneo e lontano da quello della black-music; solo pochi grandi (Ray Charles, per esempio) hanno provato ad avvicinarvisi, perché non tutti hanno la statura artistica e il carisma per potersi mettere di fronte a quel pubblico anche senza rete di protezione.
Solomon Burke, come Ray, aveva già in passato flirtato con questo genere e per il suo terzo disco dal ritorno sulla scena internazionale a grandi livelli, dopo “Don’t Give Up On Me” del 2002 e “Make Do With What We Got” del 2005, ha scelto di affidarsi a un musicista-produttore esperto del settore come Buddy Miller; il risultato è “Nashville”, un disco in cui il grande cantante soul interpreta canzoni di artisti country del presente (Springsteen, Gillian Welch) o del passato (Dolly Parton, Tom T. Hall, e Don Jones).
Parte il disco e, con in mente i Blues Brothers, mi immagino The Bishop Burke seduto nell’abituale sedia-trono con bastone e cappello in quel palco tra polvere e fieno; attacca “That’s How I Got To Memphis” con il solo accompagnamento di Miller alla chitarra acustica e già scorrono i brividi, li vedi già i mandriani che si girano pensando “cavoli, ma questo bestione sa davvero il fatto suo..” .
Ma è solo il riscaldamento, quando comincia “Seems Like You’re Gonna Take Me Back” il colore della pelle diventa poco più di un dettaglio, Burke con un country-rock travolgente li fa ballare sul tavolo i bifolchi, e già li tiene in pugno, e allora sotto con un’altra ballad, “Tomorrow Is Forever”, in duetto con Dolly Parton (dico, ma ce li vedete?) e ancora sui tavoli con una “Ain’t Got You” tanto trascinante che nel finale Solomon chiede ai presenti alla registrazione: “Siete diventati pazzi. Ma che diavolo succede qui?” .
Nel film di Landis quando i Blues Brothers intonavano “Stand By Your Man” le coppie si abbracciavano estasiate, ma l’incredibile voce di King Solomon quando si avvicina a ballad come “Valley Of Tears”, “Millionaire”, “Up To The Mountain” e, soprattutto, la straordinaria “Atta Way To Go”, crea una tale intensità sentimentale che farebbe spuntare il cuore anche all’uomo di latta de “Il mago di Oz”, figurarsi straziare gli animi degli innamorati.
Verso il finale il disco perde un po' i colpi, ma nonostante qualche passo falso (“Vicious Circle”), Burke dimostra comunque di avere la padronanza del genere in pezzi standard come “Does My Ring Burn Your Finger”, “We’re Gonna Hold On” in coppia con EmmyLou Harris o nella più moderna “You’re That Kind Of Trouble”, stavolta accompagnato da Patty Loveless; ma c'è ancora tempo però per il colpo di coda finale, in “Til I Get It Right” il re del soul abbandona la potenza strabordante della sua voce per modellare con delicatezza inaspettata una canzone che ricorda il miglior Tom Waits di “Closing Time”.
Il modo in cui Solomon Burke, classe 1936, si è riproposto sulla scena può ricordare il compianto Johnny Cash, due artisti di enorme caratura che hanno saputo invecchiare con dignità grazie ad un talento cristallino che permette loro di cantare ogni canzone e padroneggiarla come se fosse propria; questo è quello che Burke fa in “Nashville”, approccia un genere lontanissimo da lui e ne fa uscire un disco cui molti cantanti country di oggi non riuscirebbero nemmeno a sognare, un album che dura nel tempo, che non annoia e che vale sicuramente almeno un ascolto anche da chi non apprezza né il soul né il country, perché chi sa veramente fare buona musica abbatte ogni barriera di classificazione.
18/11/2006