Una produzione di alto livello che in 25 anni ha incantato con il suo mix di rock’n’roll, folk, blues e reggae. Un breve successo che ha gratificato il periodo più completo della sua produzione, dal 1977 al 1983. Invero la creatività e la buona scrittura hanno caratterizzato anche album meno importanti, forti di un buon gusto e della capacità di recepire nuove stimoli per una canzone rock d’autore che ha spesso raccolto il plauso dei colleghi (Mark Eitzel la indica tra le sue muse).
Dopo quattro anni di silenzio, Joan recupera il suo amore per il blues, regalandoci un album intenso; anche se la sola “Liza” può definirsi strettamente blues (eccellente, peraltro), tutto l’album è pervaso dal suo feeling: si va dal succoso blues-rock di “There Ain’t A Girl Alive” al blues-folk di “Baby Blue Eyes”, fino all'avvolgente “Into The Blues”, dove piano e organo intercettano gli splendidi assolo di chitarra.
Un disco privo di brani superflui, capace di reinventare l’approccio al blues senza suonare di maniera, anzi, introducendo alcune idee moderne in brani come “Mama Papa” e “Something’s Gotta Blow”.
Stranamente, però, l’ascolto potrà deludere i fan, avendo Joan rinunciato ai suoi standard sonori per realizzare un progetto più coraggioso. Se infatti le più tipiche “A Woman In Love” e “ Play The Blues” assorbono il blues nelle tessiture sonore tradizionali dell’artista americana, altrove il sound è meno familiare e il risultato più originale: basti ascoltare la conclusiva “Something’s Gotta Blow”, ricca di armonie inusuali, o “Deep Down”, costruita su due parole, con una grinta da esordiente.
Resta spazio per alcune delicate ballad, come “Secular Song” e “Empty Highway”, e per uno strano stralcio modernista in “D.N.A.”, che completano il miglior album di Joan Armatrading dai tempi di “To The Limit”, consolando altresì tutti i delusi dal ritorno di Joni Mitchell, musa ispiratrice di Joan. Per una volta - è il caso di dire - l'allieva ha superato la maestra.
21/12/2007