The "Runners Four" lo aveva preannunciato: la band di San Francisco ha imboccato il viale della normalizzazione e, se questo non è necessariamente un difetto, credo sia innegabile che i loro dischi non spiazzino più come una volta. Sempre carica di melodie “infantili” e di eccentricità assortite, la musica è di certo ancora capace di farsi apprezzare, ma questo “Friend Opportunity” sembra più un lavoro destinato a mostrare la piena, indiscutibile maturità e l’assoluta padronanza dei propri mezzi, piuttosto che un passo in avanti in fatto di creatività e ispirazione. Insomma, l’avant-pop pregno di sapori indie-prog e di screzi noise di una volta è ancora vivo e vegeto, ma il risultato finisce per risultare poco incisivo, fatto salvo qualche momento di tutto rispetto.
Così, senza troppo starci a pensare, si passa dalla filastrocca a ritmo “barattolato” di “The Perfect Me” (con la solita voce bambina di Satomi Matsuzaki) agli Stereolab sciropposi di “+81”, mentre “Believe E.S.P.” è tutta un mosaico di poliritmi, coretti swinging London rifferama hard-psych e disturbi cacofonici. In “The Galaxist”, l’atmosfera folk è carica di trasognato lirismo d’antan , mentre lo sviluppo irregolare dice ancora di una certa voglia di mostrarsi da una prospettiva obliqua, non convenzionale. Le delicatezze poptroniche di “Choco Flight” fanno il paio con quelle, shakerate, di “Cast Off Crown”, sorta di samba strampalata e bislacca.
Se in “Matchbook Seeks Maniac” si avverte ancora forte e chiaro il fiato sul collo di Laetitia Sadier & co., e in “Kidz Are So Small” a farla da padrone è una sbilenca tessitura di computer music, un brano come “Whither The Invisible Birds?” tesse una fragile filigrana cameristica che sospende in un limbo incantato l’atmosfera generale del disco. Fin qui, comunque, parlerei di normale amministrazione, anche se, come s’è visto, tutti i brani imboccano direzioni diverse, senza mai accontentarsi di ripetere il compitino con il pilota automatico inserito. A rendere le cose più interessanti, ci pensano, però, gli undici minuti della conclusiva “Look Away”. Una lunga introduzione strumentale, tutta dissonanze chitarristiche e scarti ritmici, prelude ad un’altra surreale, fiabesca incursione di Satomi in un dream-pop stralunato, inquieto, capace di arenarsi in strane insenature di math-rock , mentre, in verità, cercava, forse, sbocchi rock in opposition . Un brano che va direttamente a rinfoltire il carniere delle loro migliori composizioni.
Non sarebbe male se in futuro la band decidesse di proseguire su queste coordinate, anche perché, al momento, un disco come questo assomiglia fin troppo ad un’opera di assestamento, di mera transizione.
01/02/2007