Potremmo iniziare col dire che gli Hot Club De Paris non sono francesi e non vengono da Parigi, bensì da Liverpool, e avremmo forse già colto lo spirito giocoso e beffardo che anima le gesta avventurose di questo terzetto. Basta infatti scorrere la tracklist dell’album per rimanere piacevolmente sorpresi dalla debordante inventiva che con cui i tre confezionano i titoli delle loro canzoni: trovate ingegnose ed esilaranti come: "3:55: Penso che dovremmo tornare a casa", oppure: "Ciao. Ho scritto una canzone per te chiamata: 'Welcome To The Jungle'", oppure ancora: "Chi sono io? (Qual è il mio nome?)", fino al titolo della sesta traccia che non può essere trascritto per la sua eccessiva complessità.
A questo non trascurabile dettaglio va poi aggiunto un estro irrequieto e una genuina attitudine punk-funk di scuola Gang Of Four che li fa somigliare a una versione più movimentata e battagliera di Maximo Park o Futureheads, incrociata ai Joan Of Arc. L’approccio è fondamentalmente quello del corpo a corpo, come ben dimostrano le scalcianti catapulte ritmiche "Welcome Welcome To The Hot Club De Paris (Can I Get A Rewind?)", altro titolo da guinness dei primati, e le successive "Clockwork Toy", "3:55: I Think We Should Go Home", "Yes/No/Goodbye", "Names And Names And Names", "Who Am I? What’s My Name?", tutte accomunate da un math-punk logorroico e ipercinetico, che spesso ama distendersi in ampie strutture dal respiro quasi progressivo, notevole soprattutto per le geometrie polifoniche di voci sovrapposte e per la funambolica agilità di chitarra e basso, presi in un turbine di torsioni acrobatiche di ogni tipo.
Il gruppo ama citare tra le proprie fonti d’ispirazione addirittura i colossi hardcore Minutemen e Black Flag, e forse qualcosa rimane nella ipertrofia verbale e nel disegno trafelato della sesta impronunciabile traccia, di "Shipwreck" o di "Welcome To The Hop", mentre qua e là affiora in trasparenza qualche tentazione emocore.
Occorrerebbe forse aggiungere che le canzoni tendono pericolosamente ad assomigliarsi tutte, giocando spesso a ripetere lo stesso esercizio all’infinito e non superando gli angusti confini dell’intuizione estemporanea non portata a termine, o del tic nervoso che se ne va come è venuto; ma la simpatia e il brio non mancano certo tra queste note e le scanzonate voci a cappella di "Bonded By Blood (A Song For Two Brothers)" alla fine sapranno ripagare appieno l’ascoltatore.
19/04/2007