Poi, arriva la musica: un indie-folk crepuscolare, carico di un pathos fumoso, quasi scostante nel suo raccontarci di una “guerra nel tempo che disprezza il tempo/ in questa terra che promette terre” (“Guerre”). Un folk in cui le liriche evocano immagini precise, ma che, nondimeno, si lasciano leggere su più livelli. Il “Nero Deserto”, allora, non è solo quello delle “povere vittime della circostanza”, ma anche quello in cui “l’inferno dei vivi” si mette a processare i “nostri sogni”.
La tradizione dell’”impegno” rivive, dunque, in queste tracce costruite con la meraviglia del poco, tra linee minimali di pianoforte, soporiferi umori jazzy (è il caso della pensosa “Cara Mia Patria”) e profumi mediorientali (“Occhi immensi”).
Tutto appare ben calibrato, piuttosto curato nei dettagli, anche se, alla lunga, il disco risulta essere un tantino costipato, quasi costretto a non dire tutto quello che c’era da dire, tanto che, troppo spesso, la musica, più che inseguire, per evocazione, le parole, finisce per restare schiacciata sotto il peso icastico delle stesse: caso “estremo”, la logorroica title track, che sembra voler riassumere tutti gli umori e le emozioni di un disco ben fatto, ma non ancora degno di andare oltre una pur meritatissima sufficienza.
(19/11/2008)