Al culmine di un anno in cui la old-school del rap alternativo sembra ricompattarsi attorno ai nomi grossi dei suoi padri fondatori, loro non potevano certo fare eccezione. Dopo tre album e mezzo (tale infatti è da considerarsi lo split del 2003 con Matthew Shipp, pianista jazz con un debole per l'elettronica più black oriented) degli Antipop Consortium si erano perse, o meglio disperse, le tracce. Una separazione istantanea e consensuale da cui sono via via germogliati gli album solisti del trio di mc (Beans, M. Sayyid, High Priest) e il progetto Airborn Audio.
Ma l'uscita di "Fluorescent Black" non sarà, a detta degli stessi autori, un episodio isolato. Il Consorzio è qui per restare. Anche a costo di cambiare pelle. Diventando di un nero ancora più accentuato, brillante, fluorescente appunto. "FB" è un disco in cui c'è sicuramente più hip-hop che alternative. Più groove (funk, soul, dance, pop) e meno elettronica algida, concreta, intellettuale.
Questi "nuovi" Antipop denotano una palpabile e sviscerata propensione verso la forma-canzone, il ritornello, l'armonia potenzialmente cantabile e ballabile (una dimensione dance già esplorata dal Beans solista in un album come "Shock City Maverick" del 2004); la produzione (spartita da M.Sayyid col loro quarto membro semi-ufficiale di sempre Earl Blaize) privilegia un suono più smussato, rotondo, carico, rispetto alle stilizzazioni astratte e spigolose degli esordi; il flow, pur conservando impatto e incisività, si fa più modulato, le metriche più regolari, stringenti.
Così "Lay Me Down" dopo un fuorviante attacco strumentale noise-core indirizza il beat su una rassicurante cadenza da club con, peraltro esiziali, modanature house soul in filigrana. All'opposto, la successiva "New Jack Exterminator" affonda a piene mani nel loro vecchio carniere: base all'osso costituita da scratch e break-beat tambureggianti, glitch che friniscono nel vitreo. E su questo binario d'inedito e familiare si snoda un po' tutto il disco, veloce e trascinante come una locomotiva: dancefloor modernisti, la robotica e vocoderiana "The Solution", il soul-pop in sedicesimi di "Born Electric", l'innodica e disinibita "Volcano" (con il tormentone vocale fomentato da Roots Manuva), da un lato, dall'altro l'oldschool rivisitata di "Shine" (vicina a certe cose del neo-compagno d'etichetta Daniel Dumile, alias Doom) e "Reflections" (troncata nel finale da un improvviso soprassalto crossover), il superbo dream-funk di "Superunfrontable", il pow wow a tempo di rap di "Timpani". Altrove vecchio e nuovo raggiungono un sostanziale equilibrio stilistico come in "Capricorn One", beat ultra-minimale, brume di micro-suoni ed esplicite movenze dancey, e nella title track, aria cinematica scheggiata di elettronica computeristica.
Nel complesso: una svolta interessante (e viene da pensare che il passaggio dalla Warp alla Big Dada abbia influito o quantomeno sia sintomatico di ciò), e un ritorno non indegno della loro fama per il quartetto di New York City. La transizione dall'alt-rap del primo a quello del secondo decennio passa anche per dischi come questo.
12/11/2009