Prosegue senza sosta l'esplorazione del norvegese Tommy Jansen aka Elegi, che un anno e mezzo dopo "Sistereis" offre ora alle stampe il secondo capitolo della sua cupa trilogia ispirata all'inospitale desolazione delle lande polari. Il tema dell'esplorazione – qui esplicitato nel riferimento alla tragica spedizione antartica di Robert Falcon Scott – rappresenta per Jansen qualcosa più di un mero vezzo concettuale, traducendosi invece in vero e proprio emblema di un percorso musicale inteso a spingersi verso inesplorati territori di sperimentazioni a base dark-ambient.
Anche in ragione della sua dichiarata ispirazione, "Varde" (termine norvegese utilizzato per indicare una tradizionale stele funeraria formata da pietre sovrapposte) assume sfumature di ancor più spessa oscurità, atteggiandosi quale sinistra elegia elettroacustica, incessantemente percorsa da plumbei flutti e sciabordii inquietanti, ma non priva di accenni armonici, affioranti sotto forma del perturbante romanticismo veicolato dalla profondità degli archi e di note pianistiche solo occasionalmente amalgamate.
Nel complesso, potrebbe apparire come una sorta di colonna sonora ibernata in cristalli ghiacciati di bellezza quanto meno sinistra; tuttavia, al di là dell'attitudine visionaria ricorrente in molti dei suoi dodici brani, "Varde" conferma l'inclinazione di Jansen a una tecnica compositiva incrementale, tutta incentrata su una stratificazione di elementi nella quale la stessa origine dei suoni tende a scolorare fino a confondersi in una coltre spessa e inestricabile. Per quanto field recordings, esili giochi di dissonanze, archi e pianoforte si intersechino talora ad assumere una più omogenea fisionomia di dark-ambient orchestrale (“Svanesang”, “Råk”), più spesso sono gli stessi elementi ad esaltare l'habitus spettrale di composizioni volutamente irregolari e in continuo divenire.
Ne risultano saturazioni armoniche di matrice neoclassica ed echi di detonazioni rumoriste, che anziché sfociare semplicemente in veri e propri drone vengono piuttosto giustapposti a note elettroacustiche in seducente moto circolare, come ad esempio nel caso delle ottime “Uranienborg” e “Fandens Bre”. In questi e altri passaggi, l'apparente evanescenza dei suoni riesce a sostanziarsi in maniera più percettibile in una marea densa e soverchiante, espressione perfetta del senso di oppressione e impotenza alla base del lavoro. Se tuttavia i paesaggi disegnati da Jansen e il particolare metodo alla base delle sue composizioni non differiscono sostanzialmente da "Sistereis", rispetto al primo episodio della trilogia, in "Varde" si percepisce una maggiore fluidità complessiva, che dona al lavoro un senso di solenne compattezza sonora e quel tocco di varietà - indispensabile a rifuggire l'eccessiva piattezza espressiva - qui rappresentato in particolare dal flebile movimento impresso dagli inserti cameristici e da note pianistiche in alcune occasioni relativamente lievi (“Arvesølv”, “Uranienborg”, “Sovnens Kvelertak”).
L'immaginario d'elezione di Jansen permane avvolto da tenebre senza fine, tuttavia "Varde" sembra indirizzarne l'esplorazione verso un'ambiziosa quadratura del cerchio, in grado di riassumere la sua poco lineare concezione della musica ambientale in dense sinfonie elettroacustiche dal fascino tetro.
24/01/2009