Nell'omaggiare Angus MacLise (già batterista di Velvet Underground in fasce e poi collaboratore di LaMonte Young, oltre che poeta e compositore), i Pelt, privi della chitarra di Jack Rose, imbastiscono a suon di harmonium, singing bowls e gong un mistico rituale fatto di minimalismo raga-psichedelico e tensione verso l'assoluto.
Diviso in due lunghissime escursioni, "A Stone For Angus MacLise" è di sicuro un'opera minore nel catalogo della band che ha partorito capolavori quali "Brown Cyclopaedia" (1995) e il monumentale "Ayahuasca" (2001).
Eppure, nel rinverdire anche le solennità meta-temporali della Nico di opere capitali e superbe quali "Marble Index" e "Desertshore", Patrick Best, Mikel Dimmick e Mike Gangloff percorrono sentieri metafisici che toccano immediatamente le corde dell'anima.
"Musica eterna", allora, che blocca il presente in una successione indefinita di attimi senza fine, risuonando come una preghiere indirizzata a tutte le divinità possibili, senza distinzioni di sorta. Estasiata ed estasiante, la musica dei Pelt (di questi Pelt...) è purezza spirituale che mira dritto negli occhi il Mistero, fino a diventare, nel secondo movimento, vero e proprio mantra, con la voce "archetipica" di Best e l'esraj di Gangloff a guardare direttamente verso la porta d'Oriente.
Se ne avete voglia, un bel modo per fare quattro chiacchiere con la vostra coscienza. Sempre che non sia sporca come certe stradine di Calcutta.
10/03/2009