Ai ritorni di grandi nomi degli anni 90 si sta ormai facendo l'abitudine, tra pubblicazioni di nuovi album dopo lungo silenzio e reunion estemporanee che diventano l'occasione per riprendere percorsi da tempo interrotti.
A questa seconda categoria appartiene senz'altro il caso dei Polvo, dopo che Ash Bowie e Dave Brylovski si sono ritrovati lo scorso anno per suonare all'All Tomorrow's Parties, affiancati da un nuovo batterista, nella persona di Brian Quast (Cherry Valence). Evidentemente devono averci preso gusto, se è vero che di lì a poco hanno posto le basi per un clamoroso ritorno discografico, a ben dodici anni dall'ultimo "Shapes", che con le sue imprevedibili contaminazioni indiane sembrava destinato a rappresentare l'ultimo lascito di una delle band più brillanti del rock indipendente americano degli anni 90.
Eccoli così tornare con otto nuovi brani, con qualche anno in più sulle spalle, ma con una gran voglia di rispolverare i loro nervosi intrecci tra noise, post-punk e indie-rock.
La prima sensazione che si ricava dall'ascolto di "In Prism" è che per la band di Chapel Hill il tempo si sia fermato, come se il nuovo lavoro riprendesse un discorso vivo e presente, non interrotto per un così lungo periodo: in un certo senso Ash Bowie e compagni innestano la macchina del tempo, pubblicando oggi un lavoro che avrebbe potuto tranquillamente collocarsi a metà o alla fine del decennio scorso. Non si tratta certo di un difetto a prescindere, tanto più in quanto ritrovare la perizia delle trame chitarristiche e l'incedere matematico delle ritmiche induce a una certa nostalgia per quella stagione d'oro in cui l'abrasivo impatto noise viaggiava ancora di pari passo con capacità di scrittura dei brani e persino con tentativi di farne convivere l'impeto con una discreta sensibilità melodica.
"In Prism" rappresenta per certi versi molto di quanto sarebbe stato lecito attendersi oggi dai Polvo (chitarre angolari, frammentazioni ritmiche, rallentamenti più o meno "post"), cui si aggiunge quella sensazione di "classico" originata non solo dal tempo trascorso ma soprattutto dall'accento adesso posto su sonorità più pulite, orientate ora in una sottile chiave psych-prog, ora intese quasi ad omaggiare i mostri sacri del rock degli anni 60 e 70, Led Zeppelin in primis.
Ne risulta un album che non suona fuori dal contesto artistico attuale per il solo motivo del retroterra della band o delle sue citazioni sostanzialmente conservative, ma che comunque finisce per non graffiare più di tanto al di sotto della sua superficie. Sia chiaro, ci sono ancora dialoghi elettrici incandescenti e affiorano in più punti del lavoro destrutturazioni claustrofobiche apprezzabili per chiunque abbia seguito con passione la stagione d'oro del rock statunitense dei nineties: mancano, tuttavia, sia la freschezza nel dotare le composizioni di strutture efficaci, sia il mordente capace di un urto invero spesso diluito attraverso una batteria monocorde e chitarre che troppe volte gemono con regolarità persino languida.
L'immutata abilità della band riesce ancora a regalare qualche sprazzo del tempo che fu (ad esempio nel buon mélange melodico di "D.C. Trails" e nella solennità noise di "Lucia"), nonostante la prolissità talora eccessiva dei brani tenda a diluire oltre il necessario i superstiti accenni febbrili disseminati nel corso dell'album. Esemplificativi, a tal proposito, i quasi nove minuti di "A Link In The Chain", che chiudono il lavoro denotando un preoccupante parallelismo con gli ultimi Sonic Youth, nonché tentazioni psych e insospettabili reminiscenze prog, dalle quali nel complesso emerge una propensione dei Polvo del 2009 più verso i grandi classici del rock che non un consequenziale sviluppo della matrice artistica e culturale nella quale affondano le loro radici.
08/09/2009