Per Nathan Amundson la lentezza non deve essere una mera opzione espressiva, ma un vero e proprio stile di vita personale e artistica. Non bastassero la sofferta introspezione e le cadenze rallentate del suo tenebroso intimismo cantautorale, anche il suo approccio alla creazione musicale è perfettamente coerente con il registro espressivo dalle sfumature slow-core manifestato in ormai un decennio di attività, costellato da pochi dischi e da collaborazioni molteplici.
Testimonianza evidente di come l'autore di Duluth centellini le sue uscite, lasciando decantare a lungo la sua ispirazione, sono ben i cinque anni intercorsi tra il precedente album "You Are My Home" e il quarto episodio sulla lunga distanza del suo alter-ego Rivulets. Questione di ispirazione, appunto, ma anche - come lui stesso ci ha raccontato in una recente intervista - dell'esigenza di "fare un disco in uno studio vero e proprio con un tecnico vero e proprio", con musicisti veri e non da solo davanti a un computer, dimensione che il pur solitario Amundson continua a rifiutare con decisione.
Le condizioni pratiche e artistiche da lui richieste per la realizzazione di un disco devono essersi dunque finalmente verificate, e dimostrazione ne sono le ben tredici canzoni delle quali si compone "We're Fucked", album che innesta nuova linfa al progetto Rivulets, denominazione che di recente Amundson aveva persino pensato di abbandonare.
Eppure, fin dal titolo del disco, sembra che qualcosa in Amundson sia mutato, non certo nell'esilità delle sue melodie, né nel mood umbratile che avvolge questo lavoro al pari di quelli che negli anni l'hanno preceduto: c'è una maggiore durezza, una maggiore estroversione espressiva, un'urgenza di urlare sovrapposta all'abituale discrezione di una comunicazione capace di parlare sottovoce anche quando il messaggio veicolato poteva essere parimenti ruvido. E c'è, soprattutto, un'estrema concisione narrativa, tradotta in brani tanto brevi che presentano una struttura articolata, mentre per tutto il resto del disco si attestano su una durata media di poco superiore ai due minuti.
Eppure, tutti o quasi i tratti distintivi della musica firmata da Amundson ricorrono lungo i solchi di "We're Fucked", a partire dalle compassate armonizzazioni vocali e dalla linearità melodica di essenziali ballate elettro-acustiche, per arrivare a riverberi in odor di psichedelia e a vorticose impennate emotive. Tuttavia, accanto all'accresciuta presenza di questi ultimi elementi, nel corso del disco si affaccia evidente la sensazione che in quest'occasione Amundson abbia voluto "far bruciare" precocemente i suoi brani piuttosto che svilupparli in maniera più lenta e graduale (emblematica, in tal senso, la robusta impennata che spazza via l'abituale seraficità dell'incipit di "The Road"). A tale impostazione più diretta, senza dubbio frutto di una ben precisa scelta stilistica, deve aver contribuito anche la ristretta cerchia dei musicisti che hanno collaborato alla realizzazione di "We're Fucked", limitata al batterista Nathan Vollmar e al bassista Francesco Candura (Jennifer Gentle) e quindi ben più ristretta rispetto a quella impostato in chiave eterea e orchestrale che aveva plasmato il precedente "You Are My Home".
L'album vive dunque sul sottile crinale di una tensione non più costruita passo dopo passo, bensì esposta a un senso di drammaticità improvvisa o quasi, interposta a frammenti di limpido isolamento melodico, lasciati liberi di esprimersi in brevi miniature ("I Am", "Come See Me", "I Don't Want To Be Found") oppure propedeutici a impetuose sferzate elettriche ("The Road", "Change In Your Heart"), che in qualche caso divengono decisamente abrasive, sfiorando persino insospettabili aderenze heavy ("Souls").
Collocazione parzialmente a sé può dirsi che abbiano le torbide torsioni psichedeliche di "No Talking" e di "Everybody's On the Run" (quest'ultima offerta in anteprima in versione live alla raccolta in download gratuito OndaDrops Vol.1), così come gli unici due episodi in cui Amundson travalica la concisione del resto dell'album, dilungandosi verso durate più consone al suo registro espressivo, ovvero "Gentile Boyfriend" (che invero presenta due parti ben distinte) e soprattutto i sei minuti e mezzo di "Sheep Among Wolves", che col suo candore contemplativo rispolvera carezzevoli toni kozelekiani.
Questi e altri sprazzi della classe dell'autore del Minnesota lasciano netta l'impressione di essere in presenza di un lavoro nel complesso meritevole, ma dal respiro in definitiva un po' corto, soprattutto se posto in relazione con il precedente e più riuscito "You Are My Home". L'auspicio finale non può essere, dunque, che quello di vedere Amundson sviluppare le tante miniature delle quali si compone "We're Fucked", senza fretta ma anche senza lasciarsi nuovamente attendere così tanto.
23/08/2011