La terza prova per la band genovese è un punto cruciale della sua evoluzione stilistica.
Qui, dopo il pregevole "La mia piccola guerra" e il mini-cd "Storia di una rondine", che avevano mostrato diversi aspetti della personalità e delle radici immaginifiche della band, si raggiunge una visione completa in cui la propria complessità lirica e stilistica si incastrano a delineare un percorso artistico ben definito e indipendente.
Il progetto di Diego Banchero scrive con "Derive" una delle pagine più ricche di sfumature emotive e letterarie di quel territorio malinconico a metà strada tra il folk noir e il prog più oscuro.
Si sentono chiari i riferimenti e l'influenza stilistica di band come Malombra e Il Segno del Comando, che cercavano di raccogliere l'oscurità di artisti come Jacula e Antonius Rex, mostrando un forte attaccamento a un mondo cinematografico tra l'horror, l'esoterico e le vicende di sangue.
Questo passato si mostra assimilato e portato a una nuova maturità, dentro il corpo di un naufrago disilluso e talvolta cinico verso il cielo notturno che, tra invettive e poesie mezze trasognate, cerca un'espressione ai suoi ricordi e ai suoi pensieri.
La nave abbandonata che occupa l'artwork introduce un mondo sublunare, freddo e immobile, in cui la memoria delle vicissitudini e dei dolori, delle avventure e delle passioni, è fuggita senza lasciare alcuna traccia. Da qui nascono le ballate di "Derive", composizioni che possono mostrare una certa omogeneità strutturale a un primo ascolto, ma che si dischiudono lentamente ed empaticamente.
È la forza corale e retorica delle parole che domina l'opera degli Egida Aurea. Queste segnano le nostalgiche fantasie di un'epoca passata ("Il forziere dei ricordi"), i j'accuse politici e sociali di un mondo oggi privo di figure eroiche ("La prigionia", "Vestale") ed episodi più astratti e emotivi legati a una forma poetica riflessiva ("L'ardente fiaccola della ragione").
Il rischio, come si può immaginare, è quello di costruire un castello di immagini stereotipate e già invecchiate in cui non vi è punto di energia, ma qui non accade. Nonostante il linguaggio volutamente aulico di certi passaggi, non si finisce mai in un'autocelebrazione, o in una visione arida e sigillata. I versi cantati da Carolina Cecchinato si mostrano vividi e urgenti. Un monito che, passando per i residui di un tempo lontano, intaglia la nostra immagine del presente e ci chiede di riscoprire eroi, sentimenti e fantasie perdute.
27/04/2012