Eccolo là, il De Gregori sessantunenne barba bianca, che riecheggia l’ennesimo folk-rock polveroso ripescando nientemeno che Jack Kerouac e il suo ancor più muffoso - benché fresco di trasposizione cinematografica – “On The Road”. Bob Dylan meets the Beat generation, il trionfo della retorica sinistrorsa in salsa nostalgica e buonanotte. E invece no, l’impressione superficiale che può destare nel 2012 un disco intitolato “Sulla strada” a nome Francesco De Gregori, anticipato da un singolo verboso come la title track, è quantomai fuorviante. Perché se Kerouac – che lui ammette di aver letto solo di recente, a differenza di tutti quelli della sua generazione – è solo lo spunto per il titolo, il contesto musicale è ancor più distante da quel che si poteva immaginare. Quel folk-rock spigliato, ma ormai di maniera, abusato nei lavori recenti scompare con il singolo, svelando uno degli album meno dylaniani in assoluto del cantautore romano. Un disco che attinge alle radici della canzone italiana, e che sembra confermare quel che ha rivelato il suo amico Paolo Vites, ovvero che la prima educazione del Principe furono “le canzoni che sua madre cantava al pianoforte”.
Al De Gregori di “Sulla strada” giovano l’immersione nella canzone popolare compiuta in questi anni, prima con Giovanna Marini, poi al fianco di Ambrogio Sparagna (i due di recente hanno anche animato una serata speciale del Premio Tenco dedicata a Woody Guthrie), ma anche il tocco orchestrale di Nicola Piovani, che porta in dote i suoi archi sempre suggestivi e calibrati.
Il cuore del disco, quindi, più che nell’ennesima riflessione sul viaggio di “Sulla strada” (in materia De Gregori ha già scritto pagine sublimi, dai tempi di “Capo d’Africa” fino all’ultima prodezza “La testa nel secchio”, targata 2005), sta in uno sguardo sereno e sentimentale rivolto a un mondo antico, come quello del poeta Dino Campana, che fugge dall’Accademia militare dove i genitori l’hanno destinato, vagando al freddo tra i bordelli (“van le troie illuminando il cammino sgangherato del sergente innamorato, che di notte se ne va”). È lo splendido valzer rebetiko e quasi “coheniano” di “Belle époque”, il lampo del fuoriclasse.
È con sguardo rasserenato, si diceva, che De Gregori riavvolge il nastro dell’intero secolo passato, il Novecento: “Vedo le cose dolcemente passare” canta in “Showtime” tra radiose aperture melodiche. “Mi sento come Otis Redding in ‘Sittin’ On The Dock Of The Bay’: seduto su un molo della baia a perdere tempo”, ha confidato in una recente intervista. Distante dalla concitazione e dagli affanni dei nostri giorni, refrattario alla bulimia dei social network e alle luci della ribalta, De Gregori confessa di vivere a “Passo d’uomo”, in un’altra elegante ballata che riecheggia un lessico intriso di immagini semplici a lui sempre care (“Sono solo un operaio lungo la massicciata, il mio pane sa di polvere, la mia acqua è salata”).
Ma rileggere il Novecento significa anche calarsi nei suoi orrori, come quelli raccontati dai soldati di “La guerra”, scampati a una battaglia cruenta (“E ripensa il soldatino al suo rancio disgraziato, all’odore della notte e del sangue che ha versato, quella volta che la morte gli è passata proprio accanto”). Soldati che assomigliano molto più a quelli sdruciti della Grande Guerra o della lotta di liberazione, che a quelli tecnologici di oggi, intenti a sganciare bombe intelligenti. E anche musicalmente, nonostante la nervatura elettrica, il brano pare rievocare i vecchi canti partigiani.
I ritmi ondeggiano su cadenze latine, invece, nelle due tracce che ospitano la voce di Malika Ayane (un pallino recente del Principe): “Ragazza del ‘95”, ritratto di gioventù e speranza tra le pieghe di una fisarmonica, e la beffarda “Omero al Cantagiro” dove, sotto una pioggia incessante, un Omero miracolosamente sale sul palco a cantare la guerra di Troia: metafora neanche troppo velata della crisi della musica, dove solo il singolo gesto titanico, oggi, può sfidare il conformismo e la paralisi dell’industria discografica.
La vena autobiografica accentuata dal precedente “Per brevità chiamato artista” (2008) riaffiora tra gli archi struggenti di “Guarda che non sono io”, dove De Gregori sembra quasi giustificarsi di tutte le sue ritrosie “pubbliche”, evidenziando le contraddizioni nel rapporto uomo/artista: “Qualcuno mi vede e mi chiama per nome, si ferma e mi ringrazia, vuole sapere qualcosa di una vecchia canzone e io gli dico scusami, però non so di cosa stai parlando, sono qui con le mie buste della spesa. Lo vedi sto scappando, se credi di conoscermi non è un problema mio”. Una scena che tutto lascia immaginare si sia ripetuta molto spesso.
Non mancano, infine, le consuete riflessioni sull’amore, che – come spesso accade nel canzoniere degregoriano (ricordate “L’amore comunque”?) - diviene forza magnetica assumendo sembianze antropomorfiche (“Viaggia contromano, parcheggia sempre dove vuole/ Fa vedere la lingua, parla con la bocca piena/ Si presenta così senza un invito, proprio in mezzo alla cena” – la ballata di “Falso movimento”, griffata da un bel solo finale di tromba).
Dopo una pausa di quattro anni riempita da tanti concerti, molti dei quali in compagnia dell’indimenticato amico Lucio Dalla, De Gregori torna a raccontare il mondo visto dalla tolda della sua nave. “Sulla strada” potrà spiazzare qualche fan del periodo più politico e dylaniano, ma non deluderà chi lo ha sempre visto soprattutto come un forbito interprete della canzone italiana, profondamente calato nelle sue pieghe e nella sua tradizione. Un’operazione che ha raggiunto altrove i suoi vertici, ma che qui si mantiene su standard più che accettabili per un giovane sessantunenne, tanto refrattario alle mode quanto incrollabile nelle sue convinzioni. La solita àncora a cui potersi aggrappare in tempo di nebbia e confusione. Nell’anno della scomparsa di Dalla e dell’addio artistico di Fossati, per la canzone italiana è già un sollievo.
21/11/2012