“Francesco De Gregori, d’ora in avanti per brevità chiamato artista”. Così recitava una nota legale sul primo contratto discografico del cantautore romano. Lui ci rise su e si ripromise di utilizzarla, prima o poi, in qualche sua canzone. Quel "poi" è durato quasi quattro decenni, finché finalmente quelle parole in burocratese hanno assunto le sembianze del nuovo album dell'ormai cinquasettenne "Principe". Ma dietro lo stravagante titolo, c'è anche un significato più profondo: la volontà di porre l'accento sulla parola "arte" nel senso più romantico del termine, respingendo ogni logica mercantile. Sottolineatura pleonastica, forse, trattandosi di uno come Francesco De Gregori che ha sempre testardamente preservato la sua identità, senza mai vacillare al mutare delle mode e degli eventi.
Nobili intenti che però devono fare i conti, ancora una volta, con una scrittura non più sorretta dal getto costante dell'ispirazione, ormai perduto con la giovinezza. Un declino costante, eppure non così irreversibile. Che fossero riusciti restauri della canzone popolare italiana ("L'attentato a Togliatti", da "Il fischio del Vapore") o tentativi di rinfrescare uno stagionato standard rock (le suggestioni western alla Calexico di "La testa nel secchio", da "Pezzi"), piccoli segnali di riscossa filtravano dalle ultime prove del cantautore romano. E anche "Per brevità chiamato artista" piazza un paio di colpi di classe che, per un attimo, ridestano la magia degli anni ruggenti. In primis, la title track che apre il disco con un tuffo struggente nel passato: carezze acustiche e panneggi d'archi a incorniciare una ballata (forse) autobiografica, densa di ricordi e suggestioni oniriche, che gioca con il tema del doppio e degli opposti ("doppio come l’innocenza", "se fosse Abele sarebbe Caino", "alibi senza assassino", "perdonami se sto lontano e cercami vicino"). L'altro marchio d'autore è "Volavola", una soffice ninnananna piano-voce nel solco della tradizione folk italiana, che non avrebbe sfigurato nel canzoniere inciso nel 2002 con Giovanna Marini.
Il resto dell'album, però, si perde in quel fiacco songwriting di maniera in cui ormai De Gregori pare essersi rifugiato. Ecco allora i soliti blues-rock imbolsiti, dai toni vagamente profetici ("Finestre rotte"), le scontate andature dylaniane ("Celebrazione", una presa di distanza dagli anni "di terrorismo e di fotografia" dove "la sinistra era paralizzata, la destra lavorava"), la ballata country con armonica a bocca d'ordinanza ("Ogni giorno di pioggia che Dio manda in terra"), il consueto divertissement linguistico, giocato nella fattispecie con i verbi all'imperfetto ("L'imperfetto"), l'immancabile mantra del "mala tempora currunt", stavolta in forma di grottesco stomp ("Carne umana per colazione"), con kitschissimi coretti femminili a corredo.
Canzoni oneste, ma prive di quei lampi poetici e di quelle impennate melodiche che sgorgavano con incredibile naturalezza dal songbook dei tempi d'oro.
Meglio, semmai, la cover di "The Angel Of Lyon" degli americani Tom Russell e Steve Young ("L'angelo di Lyon", con testo di Luigi Grechi, fratello di Francesco), e il commiato angoscioso di "L'infinito", drammaticamente enfatizzato da un arrangiamento d’archi e piano (“Ho viaggiato fino in fondo nella notte senza guardarci dentro/ senza sapere dove stavo andando/ e alle mie spalle il giorno si stava consumando/ E ho visto un grande albergo con le luci spente e ho avuto un po' paura "). E’ l'epilogo più amaro di una "autobiografia fantasticata", come lo stesso De Gregori ha definito la raccolta.
L'"Artista" è un po’ stanco, insomma, ma, raffrontato ad altri cantautori della sua generazione (Dalla, Venditti, persino l'ultimo, terribile Fossati di "L'Arcangelo"), conserva un suo aristocratico decoro. Il suo principale limite, in definitiva, si può individuare nell'eccesso di prolificità: cinque album in studio realizzati dal 2000 ad oggi, più due antologie con inediti, sono decisamente al di sopra delle sue possibilità attuali. Ed è un peccato, perché la mediocrità è una cifra che non si addice a chi sapeva sempre volare alto, anche quando camminava sui pezzi di vetro.
01/07/2008