Che cosa distingue la nobile arte della canzone politica dal comizio? La poesia, verrebbe subito da dire, ma anche il tocco leggero, l'arguzia, l'ironia, la metafora pungente al posto dello slogan di grana grossa. Un confine sottile, ma nitidissimo al contempo, che anche i più grandi, almeno per una volta, hanno finito con l'oltrepassare.
Ivano Fossati, uno dei più lucidi e forbiti musicisti-intellettuali del nostro tempo, vanta in questo senso un pedigree impeccabile: la sua cupezza livida, le sue introspezioni malinconiche, le sue riflessioni ad alta integrità morale e civile, ne fanno una sorta di coscienza critica non solo della scena musicale, ma della stessa società italiana. Merito anche di un linguaggio scabro ed essenziale, figlio della sua terra ligure. Eppure, a giudicare dal suo ultimo disco, lo sdegno per la temperie politica italiana e internazionale deve aver preso la mano anche a uno stilettatore in punta di penna come lui.
Strombazzato sulla stampa come "il disco più politico di Fossati", tanto per tener ulteriormente desta l'attenzione in campagna elettorale, "L'Arcangelo" segna anzitutto una novità musicale: il ritorno al rock, filtrato dalla consueta sensibilità per le ritmiche sudamericane, e, nel complesso, una maggiore "solarità" rispetto alle cupe introspezioni dei lavori precedenti. Solarità che però raramente fa rima con qualità, specie se per questa si intende lo standard del miglior Fossati, quello di "Discanto" e dintorni, tanto per intenderci.
La politica c'è, e spadroneggia, inutile girarci intorno. A volte in modo pedante, come nel r'n'b di "Ho sognato una strada" ("Se i grandi ottusi della Terra/ ci trascinano a fondo/ sarà che giorno dopo giorno/ avrò sognato troppo a lungo" - c'è bisogno di Fossati per sentirselo dire?), o in "Cara Democrazia", sostenuta esortazione per voce e chitarra elettrica che rievoca le più retoriche sparate di Battiato (altro cantautore cui il fuoco dell'indignazione nuoce, e non poco); o ancora nel reggae no-global de "La Cinese", filastrocca sardonica sulla paura dell'Oriente e sui mercati petroliferi. Altre volte con esiti più convincenti, come in "Denny", delicata storia d'amore omosex vissuta nella quotidianità di una esistenza normale, ma sempre all'ombra del pregiudizio ("Nessuno sa e nessuno/ Nemmeno capisce/ Nessuno vede l'amore/ Nessuno lo intuisce"): un bel testo su musiche di Pietro Cantarelli, autore anche di tutti gli arrangiamenti del disco, insieme al figlio di Fossati, Claudio.
Ma è soprattutto ne "Il battito" che la polemica di Fossati si fa più acuta, con un j'accuse sulla superficialità imperante, sulla smania della sintesi a tutti i costi, che costringe il pensiero a restringersi e farsi piccolo: canzone anche musicalmente più a fuoco, con un dolce accompagnamento di piano e un intenso finale strumentale in crescendo. Altre volte, invece, è proprio il lato musicale a tradire segni di stanchezza: difficile entusiasmarsi tra le percussioni sudamericane, i timbri cubani e le chitarre elettriche à-la Santana della title track , dove un immigrato diviene l'arcangelo-rivelatore di un mondo nuovo (e siamo comunque anni luce distanti dalle vette liriche di quell'inno alla fratellanza universale ch'era "Mio fratello che guardi il mondo").
Il disco non decolla anche sul versante delle ballate sentimentali. "L'amore fa" si impantana in una melodia fiacca e in liriche para-sanremesi; il cha cha cha di "Reunion" seppellisce il racconto delle difficoltà di un (re)incontro in un impasto di hammond e fiati un po' stantio; "Pianissimo" gioca la carta dell'arrangiamento suadente, ma senza graffiare. Meglio, semmai, il malinconico mid-tempo di "Aspettare stanca", cronistoria di addii e frasi al telegrafo, griffata da un bel contrappunto di sassofono.
Si può essere d'accordo su tutto ciò che Fossati scrive e canta, ma nel complesso il suo Arcangelo suona come una grande occasione mancata di riportare la canzone politica al centro del panorama musicale italiano. E non giova certo a un poeta della penombra come il Nostro un approccio così immediato, talora predicatorio, a volte quasi ostentatamente "didascalico".
Nella frenesia di vuotare il sacco sui piccoli grandi orrori della realtà politica attuale, Fossati sembra smarrire quel tocco di sobrio lirismo che è sempre stato la sua marcia in più. Così, paradossalmente, il meglio dell'album viene dalle sue tracce meno "rappresentative", quelle più intimiste e appartate: quasi una vittoria del "vecchio" Fossati su quello attuale. Ma se a prevalere è la nostalgia, la scommessa non può considerarsi vinta.
15/03/2006