A voler attribuire uno soltanto dei sette peccati capitali all'attuale generazione di musicisti indipendenti, non si potrebbe in alcun modo prendere in esame la pigrizia; le infinite strade percorribili attraverso la Rete, e l'elevatissima competizione tra artisti, hanno portato questi ultimi non solo a cercare di inventarsi il modo più bizzarro e originale per attirare eventuali ascoltatori, ma anche a rilasciare con una frequenza più sostenuta (coi dovuti distinguo, naturalmente) i frutti della propria creatività, pena l'oblio immediato da parte di un pubblico faticosamente racimolato. Una storia che conosciamo tutti quanti oramai, e che permette a pochissimi, forse ad ancora meno che in passato, di farsi largo tra la folla.
Tra i pochi fortunati, tra quelli che possono dire di “avercela fatta”, anche se chiaramente non al livello di recenti band da Grammy, ed essere entrati nei cuori di una platea leggermente più trasversale e ampia che quella di casa propria, un'avvenente estone trasferitasi per motivi di studio a Londra, Maria Juup, in arte Maria Minerva. Con invidiabile agilità è passata dall'essere una specializzanda in arti visive, nonché aspirante critico per il celebre Wire Magazine, al diventare uno, se non il, nome di punta della Not Not Fun, l'etichetta che più di tutte ha issato a proprio stendardo la perlustrazione degli avamposti più strambi e bislacchi del mondo underground.
Due album e due Ep nel volgere di un solo anno, per giunta tutti alquanto dissimili tra loro, hanno cementato il suo status di piccola stella nascente di quella scena weird-pop che oramai allarga le proprie frontiere con cadenza settimanale e che, nell'arco degli ultimi anni, ha raccolto tanti, (ma solo in pochi casi) interessanti proseliti. Con un amalgama capace di fondere melanconici echi dreamy, sgranatissimi battiti sintetici, influssi italo-disco, e soprattutto tanta, incompromissoria abilità di sintesi, “Cabaret Cixous”, ma ancora prima la cassetta “Tallin At Dawn”, presentava dei pot-pourri sonori stravaganti e tutt'altro che banali, frettolosamente catalogati sotto la facile e inutile etichetta “chill-wave”.
In realtà, nei solchi della musica della Juup, quella proprietà peculiare al movimento ipnagogico di rivivere il presente come se si trattasse del “ricordo del ricordo” è solo uno dei tanti spicchi di una personalità tortuosa che si diletta nel rivelarne, volta volta, uno soltanto, lasciando sulla via i presagi di cosa ci si potrebbe aspettare dal futuro. Così, dopo la svolta house di “Sacred And Profane Love”, l'Ep che l'ha vista cedere alle sue tentazioni festaiole, la Nostra torna in azione a dieci mesi di distanza con “Will Happiness Find Me?”, e tutta la voglia di fare le cose in grande.
Si è presa più tempo del solito, e così come Zola Jesus (alla quale spesso è stata paragonata, non fosse per la provenienza dalla stessa area geografica), al vaglio della sua terza creatura il livello dell'asticella si alza notevolmente, puntando non solo a conquistare i cuori di un pubblico potenzialmente più esteso, ma anche a dar loro in pasto una pietanza succulenta, di quelle davvero indimenticabili.
Intento nobile e coraggioso, sinonimo di un'identità artistica che non lascia niente al caso; un vero peccato però, dato che come succede in molti casi, alle buone intenzioni non corrispondono analoghi risultati, persi in un mare magnum di idee a malapena abbozzate, quasi mai portate a pieno compimento. E per quanto l'utilizzo di uno studio di registrazione sia alquanto più marcato stavolta (per quanto l'ovattata dimensione della cameretta sia stata tutt'altro che tenuta a bada), è proprio il senso della composizione che langue, sfociando in bizzarre giustapposizioni che non riescono quasi mai a infiammare gli animi, nonché la nostra attenzione.
Si vorrebbe perdersi in questi giochi di contrasti, naufragarvi e non tornare mai più indietro, ma l'impressione è che sia la stessa Minerva a non volerlo davvero, a tentare di rispedirci da dove eravamo arrivati, e a farci tornare in pieno possesso dei nostri sensi. Le cineserie assortite dell'introduttiva “The Sound” infatti contrastano malamente, piuttosto che lavorare in sinergia, con le carezzevoli parentesi vocali della cantante.
Idem come sopra per molti altri brani nella collezione, delineati da un amorfo pulsare di elettronica vintage e divagazioni atmosferiche che prende una direzione totalmente opposta al trasognato vagabondare delle interpretazioni della musicista, ora più dedita ad un abbraccio evocativo (“The Star”), ora invece prossima a un sottile recupero di memorie sepolte nella mente (“Fire”, “Heart Like A Microphone”, come anche la flemmatica “Never Give Up”, dotata di una lunga coda sperimentale stretta parente del trip-hop più sbilenco e malsano).
Difficile quindi trarre giovamento da quelli che sembrano meri abbozzi preparativi, in attesa di una maggiore ispirazione e di un trattamento ancora ignoto. Meglio quindi volgere il proprio sguardo altrove, magari verso voluttuose superfici profumate di influssi ambientali (“Alone In Amsterdam”), oppure quando s'abbandona senza remore al suo versante dance, magari condendolo di speziate prurigini house (“I Don't Wanna Be Discovered (Will Happiness Find Me?)”, costruita su un passo di giga) o ripescando vecchie gloriose stagioni della musica nera (il new jack swing di “Sweet Synergy”).
Onestamente, però, è davvero troppo poco, e l'affastellamento di mille idee diverse non aiuta di certo nell'andare avanti di riascolti, cosa che non rende assolutamente merito a chi invece di intuito e creatività non difetterebbe in alcun modo. Consigliato comunque l'ascolto di “Tallinn At Dawn”.
24/09/2012