Cerchiamo di riassumere questo disco in una frase a effetto: se Tarantino girasse – finalmente – un western, “Rosario” potrebbe esserne facilmente la colonna sonora. Al secondo disco prodotto e registrato con una schiera di mecenati da far paura a qualsiasi band su questo pianeta (Convertino dei Calexico e Isobel Campbell per dirne un paio), dopo che metà degli artisti di un certo calibro capitati in Europa negli ultimi tempi li ha richiesti perché li accompagnassero in tour (tra gli altri, Richard Buckner e, ora, Hugo Race), i Sacri Cuori difficilmente possono essere presentati come una di quelle band meritevoli verso le quali si hanno grandi aspettative.
Questi dischi rimuginati, che raccolgono collaborazioni altisonanti e endorsement di razza, hanno sempre il rovescio della medaglia di uno slancio artistico non proprio, in genere, prorompente.
“Rosario”, in questo senso, non fa eccezione: suggestive e stupendamente eseguite sovrapposizioni di strumenti, che giocano con atmosfere tanto desertiche quanto notturne, con frequenti intermezzi jazz, che spesso però non brillano per sostanza ed emotività. Grande suggestione, certo, come nella Burton-iana passeggiata spettrale di “El Conte”, come nella docile cavalcata crepuscolare di “Where We Left”.
Si succedono così, nel disco, mirabili impalcature formali (la languida, sognante e Fellini-ana “Lido”), perfette ricostruzioni di ambienti artistici e mentali, che immancabilmente falliscono nell’illuminare la scena oltre un evidente mestiere.
Insomma un altro disco del quale evocare, con provincialismo, l’”internazionalità”. Per chi scrive rimane un grande disco di grandi musicisti, ma assai povero dal punto di vista artistico.
24/12/2012