Dopo aver riscaldato l’atmosfera dei club folk londinesi, Sam Lee mette finalmente a frutto tutte le sue doti di storyteller e antropologo della tradizione musicale scozzese con un album, “Ground Of Its Own”, che ripropone materiale tradizionale con un inatteso spirito contemporaneo.
Allievo dell’emerito Stanley Robertson (studioso e maestro di antiche culture autoctone), il cantautore si dedica allo studio della musica folk come frutto dell’interazione tra l’uomo e la natura: le sue canzoni nascono dalla cultura popolare, con tutto il carico di emozioni e sentimentalismi che altri avrebbero l’ardire di vestire di nuance intellettuali. Le influenze vanno da Woody Guthrie a Shirley Collins, con inevitabili citazioni della rivoluzione folk-rock dei tardi anni ’60, abilmente registrate da quell’ingegnere del suono, John Wood, che tutti ricordiamo alla corte di Nick Drake.
Canzoni dimenticate della tradizione gitana e dei nomadi vengono così affidate al tono quasi baritonale di Sam Lee, che talvolta si cimenta con un cantato non-sense, a tratti profondo e inquietante. Senza alterare le caratteristiche proprie del contesto selezionato, il musicista vi infonde un pathos del tutto nuovo: non c’è traccia di modernità coatta, tanto che neanche le chitarre fanno il loro ingresso nelle strutture ancestrali degli otto brani. Arrangiamenti sontuosi danno un nuovo respiro ad ogni frammento; ed è così che trombe e steel drums sottolineano l’atmosfera magica di “On Yonder Hill”, affascinante racconto sulla vita delle lepri, mentre un violino sfuggente e spaurito sostiene il delicato affresco di” Wild Wood Amber”.
Il timbro spettrale di alcuni fraseggi vocali inducono l’ascoltatore ad approfondire i testi dell’album, un campionario di macabre storie di morte e sofferenze atroci, graziate dal tono sicuro e mai minaccioso della voce di Sam Lee. Il dialogo perenne tra amore e morte di “The Ballad Of George Collins” scorre su percussioni, arpa e banjo, mentre la tromba guida il refrain ipnotico e struggente verso lidi armonici romantici, appena turbati dalla grancassa.
Imprevedibile e sorprendente, “Ground Of Its Own” stuzzica con arrangiamenti retrò da vecchio album di fotografie nella già citata “Wild Wood Amber”, introduce drone indianeggianti nella struggente trama di “Goodbye My Darling”, creando un vortice sonoro che invita ad una danza rituale e pagana. Grazie ad una musica senza tempo, dal fascino tetro ma intrigante, Sam Lee ci porta in “Jews Garden”, tra infanticidi e oltraggi che ancora attendono giustizia, con poche note di violino e marranzano, mentre il canto degli uccelli introduce le intense suggestioni vocali di “The Tan Yard Side”, colorate dai suoni minimali dello shruti-box (una specie di harmonium indiano).
Servono così pochi suoni, acustici e cristallini, per “Northlands”, dove il numero di vittime cresce senza sosta, prima che la voce femminile, rubata a un vecchio album di canzoni da music-hall ci trascini verso le noti di “My Ausheen (My Old Shoes)”, nella quale il piano pare scordato e il canto svogliato.
Con passo leggero, gli strumenti abbandonano pian piano il campo sonoro lasciando quel senso di rappresentazione teatrale e culturale che sembra il vero punto d’arrivo di questo fulminante esordio: il miglior album folk dell’anno.
26/09/2012