Non si può certo dire che il gruppo tenti chissà che voli pindarici, ma una certa volontà evolutiva si osserva; non si sa se verso qualcosa di più completo e ambizioso, o se verso qualcosa di semplicemente più adatto alla sopravvivenza nel mercato musicale.
Dopo l’intro ambientale di “Balloon Lamp”, i riverberi e le armonizzazioni di “Morning Sun” mostrano un gospel pubblicitario che si poteva temere, ma non in queste proporzioni. Skip immediato, per rimanere ancora basiti di fronte a “Echoes”, di gran lunga il pezzo più pop della band; praticamente preso di peso, catturato nel mondo rosa e viola di “Rumours”.
Insomma un bel grattacapo, questo “Island Of Echoes”: in un tentativo generale di variare maggiormente non solo nelle soluzioni, ma soprattutto nelle atmosfere (subito dopo si torna al folk-pop più caratteristico della bella “The First Snowfall”, quella specie di Fleet Foxes più impressionisti, con finale jazz-rock), si alternano appunto scelte di banalizzazione (come anche nel folk-rock psichedelico di “The Aral Sea/Southern Winds”, o nella preghiera di “Golden Thyme”) e più interessanti escursioni in mondi altri ma vicini (ancora Fleetwood Mac, ibridati però coi Sea & Cake, in “A Year In Its Passing”).
Il lavoro sulle canzoni è sicuramente aumentato grandemente, tanto che anche nel breve motivo di banjo dei Beach Boys di “Glory Days” compare un arrangiamento per fiati, facendo perdere al gruppo anche quell’aria raccolta, ma pronta a espandersi di fronte al richiamo della natura, degli spazi, e non coi mezzi di una migliore produzione o di chissà quali orchestrazioni (come sa bene anche chi ha avuto la fortuna di assistere a un loro concerto).
È così che anche un bell’esperimento “post-folk” come “The Island Of The Day Before” – la “Native Tongue” di “Island Of Echoes” – perde un po’ del suo potenziale, nonostante l’imprevista mutazione in musical natalizio del finale.
Insomma c’è molto da ricalibrare nel gruppo, nonostante il famoso “disco di transizione” fosse ampiamente preventivabile.
(24/09/2012)