Prevedibile nella sua totale imprevedibilità, sempre volto a nuovi moli a cui far attraccare il suo vecchio veliero, Dan Bejar è autore che nel tempo ha consapevolmente diviso critica e pubblico, ponendo come unica costante del suo percorso il cambiamento. È un anelito costante, un impulso alla ridefinizione quello dell'artista canadese, a tal punto pronunciato, da spingerlo talvolta ad affermazioni a dir poco sconcertanti.
Era indubbio che i panni del dandy sofisticato che solo due anni anni fa licenziava “Kaputt” avrebbero cominciato a star stretti all'inquieto polistrumentista nell'arco di brevissimo tempo, non vi era proprio margine d'errore a tal riguardo. Stavolta però, la dipartita è ancora più radicale del solito. “L'inglese nel 2013 sembra aver detto tutto quello che aveva da dire. È una lingua buona per le transazioni di lavoro, ma finisce lì”: come a dire che lo stravolgimento a questo giro è ancor più sostanziale che in passato, e che il “disagio” artistico di questo vagabondo da Vancouver ha dovuto volgersi ancora più in là, per trovare conforto alla propria insaziabilità. Il risultato, per l'ennesima volta, rispecchia pienamente il suo autore.
Con i soli Nicolas Bragg e John Collins dei Destroyer a venire in soccorso a Bejar a questo giro (il tastierista Ted Bois si occupa esclusivamente della fotografia del lavoro), e numerosi contributi esterni a completare il parco musicisti, “Five Spanish Songs” è, come da titolo, opera interamente interpretata in lingua spagnola, Ep che taglia i ponti con la tradizione anglosassone, omaggiando infine la lontana patria di Dan, mai dimenticata dallo stesso, finanche coltivata a partire dalla stessa lingua.
Semmai, a stupire è la modalità del tributo: nessun ricorso a chitarre latine, nessun passo di flamenco, niente di niente nel sound che possa rimandare anche lontanamente a calorose ambientazioni iberiche. Per l'occasione, l'autore di Vancouver è andato infatti a ripescare alcune tra le migliore canzoni di Antonio Luque, cantautore di Siviglia che con i suoi Sr. Chinarro ha scritto alcune delle pagine più importanti del pop ispanico. A Bejar è spettato l'arrangiarle e il riadattarle alla propria sensibilità, conferendo loro il suo tocco riconoscibilissimo, quell'attitudine da indie-cosmopolita che ne ha segnato la carriera.
Un tocco che, rincresce dirlo, stavolta convince ben poco: la penna senz'altro è di buon spessore (“Maria de las nieves”, cullante sinestesia pop dalla produzione fortemente dreamy, e “Bye Bye”, qui suonata interamente in acustico, sono tutt'altro che brani insignificanti), e la raffinatezza compositiva di Bejar sempre di notevole livello (si ascolti il taglio samba-funk a descrizione di una più trascinante “Babieca”, oppure il mordente sguainato dalla chitarra nel piglio rock di “El rito”), ma ciò che manca ai brani è una rilettura realmente decisa da parte dello stesso interprete, una performance che lasci per davvero il segno.
Nell'ambito di pezzi così rigorosamente strutturati, la voce di Dan, avvezza più che altro a suggestivi flussi di coscienza, non trova il suo contesto più naturale, diventa quasi la caricatura di se stessa, complice anche la scelta di una lingua, che mal si adatta al suo timbro flebile, da intimo cantastorie. La profonda passione insita negli originali qui fa insomma fatica ad essere trasmessa con la stessa intensità, il lirismo intricato dei testi di Luque quasi snaturato in questo contesto.
Questo ritorno alle origini sarebbe insomma da rivedere: se non dalle fondamenta poco ci manca.
21/12/2013