Nei suoi tre lustri di carriera sotto la ragione sociale di Destroyer, Dan Bejar ha ampiamente dimostrato di essere artista versatile e senz'altro refrattario alla categorizzazione tra quei songwriter che, non senza una certa sorpresa, negli ultimi anni hanno tornato a farsi apprezzare attraverso soluzioni la cui forza espressiva può risiedere quasi esclusivamente nelle capacità di scrittura e interpretazione.
Forse perché Bejar non ha mai eccelso per quanto riguarda questi due aspetti, i successivi stadi della sua evoluzione stilistica sono sempre risultati difficilmente prevedibili dal punto di vista del suono e di costruzioni la cui ricercatezza ben si è coniugata con testi ricercati e con una certa aura di intellettualismo, ormai quasi sicura garanzia di una positiva accoglienza negli ambienti indipendenti in grado di stabilire standard o indirizzare trend.
Anche il suo nono album, sfugge dunque ai pronostici o, quantomeno, di quelli di coloro che non hanno seguito le esigue tracce del cantautore di Vancouver, intercorse tra il precedente "Trouble In Dreams" e questo "Kaputt", che alquanto curiosamente trae il proprio titolo dall'omonimo romanzo di Curzio Malaparte (che peraltro Bejar ammette di non aver mai letto...). Nei tre anni che separano le due opere, Bejar ha infatti fornito qualche indizio del suo nuovo giro di boa creativo, attraverso la metafisica isolazionista che contrassegnava, seppure in maniera assai diversa, i due Ep "Bay Of Pigs" e "Archer On The Beach". Se infatti il secondo lo vedeva immergersi in un mondo sommerso tempestato di liquide correnti ambientali realizzate da Tim Hecker e da Scott Morgan, il primo (la cui title track è qui riportata in versione leggermente più concisa) cominciava a dischiudere quel vellutato sogno eighties che in "Kaputt" trova articolata espressione sulla lunga distanza.
La scelta sonora caratterizzante l'album risulta infatti fin da subito elegante e accogliente: l'iniziale "Chinatown" ammalia tra pulsazioni sintetiche e riverberi liquidi, disegnando un morbido lounge-soul impreziosito da sinuosi inserti di ottoni, che costituiranno uno dei denominatori comuni a tutto il lavoro. Alquanto stridente appare dunque il contrasto tra la brillantezza dei lustrini dell'abito sonoro del brano e l'immaginario post-apocalittico del testo: "The wind and the rain to your detriment you try to explain a government swallowed up in the squall. I can't walk away at all in Chinatown". Tale dicotomia ricorre peraltro in ampi tratti del lavoro, la cui tematica permane sospesa in bilico tra omaggi a Beatles e New Order e ironiche citazioni della stampa musicale inglese, nonché tra pungenti scorci di una contemporaneità decadente e accenni di una sagacia che però sfocia piuttosto in compiaciuto narcisismo ("This song for America, they told me it was clever", "I heard your record, it's alright").
A ben vedere, è proprio questa la cifra narrativa di un disco incentrato appunto sul doppio binario da un lato della sublimazione di un piacere effimero, che deliberatamente richiama una patinata estetica retrò, e, dall'altro, di una dissacrazione della contemporaneità occidentale ("New York City just wants to see you naked, and they will"), sovente incarnata dalle figure femminili che popolano i testi di tanti brani.
La scelta è senz'altro singolare e ambiziosa ma, alla luce dei risultati, alquanto inconcludente, tanto dal punto di vista della credibilità dell'effetto complessivo (al tempo stesso geniale e incongruo il coretto della title track "Wasting your day, chasing some girls all right, chasing cocaine through the back rooms of the world all night"), quanto da quello dell'efficacia di una scrittura scarna e disarticolata, che anzi spesso si ritrae dietro le quinte per lasciare spazio a soffici texture sintetiche, claudicanti linee chitarristiche, ampie divagazioni al sax e pulsazioni da sofisticata pop-dance anni Ottanta. Non è certo l'idea in sé a essere malvagia, tanto che le ambientazioni sonore sono curate e ben riuscite, ma la loro sostanziale monotonia, unita alla debolezza di buona parte dei brani (con le parziali eccezioni di "Chinatown", "Savage Night At The Opera" e della bowiana "Poor In Love") sfocia ben presto in una sensazione di piatta stucchevolezza.
Si direbbe, dunque, che Bejar questa volta si sia fatto prendere fin troppo la mano dalla smania di inventarsi qualcosa di diverso, concentrandosi quasi soltanto sulla forma di una musica rifinita con curata eleganza e tuttavia incapace di colpire e farsi amare al di là di un livello epidermico.
Una cosa è certa: se ancora più che in passato il suo intento era quello di sorprendere, almeno sotto questo profilo ha colpito nel segno, visto che difficilmente qualcuno avrebbe immaginato che, ascoltando un suo disco, il pensiero sarebbe potuto correre a Sade, George Michael e Lionel Ritchie o alle atmosfere di un porno-soft di trent'anni fa.
22/01/2011