Destroyer

Destroyer

Alla ricerca dell'omnia-pop

Urgenze e memorie antiche, un melange dal fascino dimenticato. Quella dei Destroyer, formazione solista del cantautore Daniel Bejar da Vancouver, è un'alchimia tesa verso un modello individuale di classicità pop. Uno stile tutto guizzi e panneggi; una robusta eredità autorale fatta di turbamenti e di sensi in subbuglio, che ha aperto nuovi scenari al pop contemporaneo

di Fabio Russo + AA.VV.

I Destroyer sono stati formati nel 1995 a Vancouver dal compositore Daniel Bejar. La loro proposta musicale è una forma di pop cantautorale, variopinto e creativo; una cerimonia eclettica e insolita, tanto sul piano musicale quanto sui testi.
Un fasto gradualmente sbocciato e manifestatosi imponente nel corso di oltre dieci anni, nei quali Bejar s’è svelato come uno dei maggiori talenti pop in circolazione.
Dotato di uno stile vocale duttile, vulnerabile e inconsueto, egli è anche un intrigante, ineffabile paroliere e soprattutto abbina un raro talento melodico a un senso immaginifico/affabulato che ringiovanisce la scrittura, autentico marchio di fabbrica “Destroyer”.

Il primo album di Destroyer è realizzato da Bejar nella propria dimora attrezzata a studio d’incisione, frutto d’anni di scrittura amatoriale. We'll Build Them a Golden Bridge (1996, Tinker) è pura arte informale impressa senza convenevoli su un quattro piste, che si assimila ai gruppi più sghembi e scanzonati dell’indie-rock in bassa fedeltà dell’epoca (si pensi ai Pavement più frammentari, Wingtip Sloat, Further...).
Forse, per esigenza e non per scelta artistica: i Destroyer del 1996 sono insomma camuffati ed elusivi musicalmente per distinguersi e svettare davvero. Ancora tacciono le notevoli specificità musicali a venire, in pochi avrebbero scommesso su di loro.
Talvolta affiorano ballate in punta di corde, come "Streets Of Fire", "Breakin' The Law"; atmosfere divertite, sonnolenza da dopo-party su "Rose Fleched This". Pregevole il senso di torpore nella fisarmonica di "Saddestroyer".
È tutto un susseguirsi di impressionistiche marcette da banda campestre, la cui linearità s’increspa talvolta con trovate e vezzi sperimentali a ravvivare (organetti Casio, strumenti folk, handclapping...).
La voce è sempre un brusio o è alterata, lillipuziani i brani (la cui durata media si assesta intorno ai due minuti e mezzo): smorzandosi, essi colgono di sorpresa, irritando o divertendo, a seconda dei gusti.

L’anno seguente sono pronte altre canzoni che il gruppo licenzia in cassettina autoprodotta, non da considerarsi album “ufficiale”: Ideas For Songs (Granted Passage Cassettes, 1997).
L’aria è ancora ironica e diafana, giocosa e “costretta” da mezzi tecnici di circostanza, ma cominciano ad avverarsi forma e personalità (come mostra ad esempio l’intensa "You Can't Go Home Again").
S’inizia a intravedere insomma la magia di Bejar (“The Terror Serves A Purpose”, "Leaving London", "It Is Me Who Will Rate You"). L’insieme è più a fuoco, la voce, sperduta e sensibile, somiglia nello spirito ai lamenti amorosi del primo Daniel Johnston. A riscattare la povertà formale in questi brani, è appunto l’onesta, la peculiare malizia, persino una certa inerzia. "Why Banacek Doesn't Love", tra una chitarra elettrica squillante e la voce beat, è il primo brano del gruppo a raggiungere i cinque minuti di durata.

Il 1998 diviene l’anno decisivo per i Destroyer. La band canadese si schiera come trio: Bejar alla chitarra, John Collins a basso, synth, chitarra elettrica e Scott Morgan (poi in Loscil) alla batteria.
La line-up rimarrà inalterata sino al nuovo millennio.

Il nuovo album, City Of Daughters (Triple Crown Audio/Endearing, 1998), volta dunque pagina.
Per quanto ancora scarno sul piano strumentale, "brado" e diretto per comunicativa, è ormai maturo compositivamente e persino fastoso melodicamente.
City Of Daughters è il capo d’opera del primo periodo del gruppo: esprime al nocciolo l’arte visionaria, figurativa e vagamente enfatica di Bejar, frutto di un autore ricco di verve e dalle soluzioni strumentali spesso inebrianti e inattese.
L’aria da principio si mostra sempre acustica: Dan Bejar impersona un aedo sperduto e ramingo (voce e chitarra); via via accorrono strumenti a fiato, percussioni, tastiere, a favorirne l’espressione.
Per quanto convivano più facce ed equilibri, è tutto plausibile: City Of Daughters è la chiave di volta che raffigura la crisalide nel passaggio al nuovo aspetto e in quel mutamento c’è tutto un potenziale, la lucida intuizione.
Durante l’ascolto emerge senz'altro una band affiatata, diretta dal leader in modo minimale ma scrupoloso. "The Space Race", "I Want This Cyclops", "School, And The Girls Who Go There", "Melanie And Jennifer And Melanie" sono istintive, naturalistiche gemme di cantautorato folk-pop, assimilabili ai lavori coevi dei Songs:Ohia o dei Mountain Goats più ispirati, lirici e ammalianti (“Sweden”, 1995), o a dei Guided By Voices “attrezzati”.

Daniel Bejar - DestroyerThief  (2000, Catsup Plate) è il “punto e a capo”, la metamorfosi avvenuta. La giovane creatura si solleva nitida elegante e vola in alto; domina lo spazio e si ostenta, intensa e plausibile.
La line-up di Destroyer vede aggiungersi Jason Zumpano, batterista dal gruppo omonimo (poi in Sparrow) e il chitarrista Stephen Wood, e l’artificio riesce a meraviglia, nuovamente.
Thief è un disco che “rapina” l’ascoltatore con brani emozionali, accesi e vistosi, sfoderando novelty-pop come le penserebbe solo Robyn Hitchcock o un Bowie ebbro di Beatles; imbevute di vivacità e passione, fluttuanti e appartate, vivi colori di un affresco.
In questo senso si propone un accattivante terzetto d’apertura che s’iscrive tra le migliori concezioni di Bejar; i flutti melò di "Destroyer's The Temple", "To The Heart Of The Sun On The Back Of A Vulture, I'll Go" e "The Way Of Perpetual Roads". Quasi un tutt’uno a mo' di suite arrembante e infervorata, un vertiginoso, calibrato saliscendi emotivo tra grappoli di corde, organo e canto rapinante.
A tratti questo disco appare consanguineo di quel capolavoro di rapace aggressività e sentimentale euforia che porta il nome di “Mass Romantic”, esordio di New Pornographers (2000, Mint Recordings), escogitato da Bejar assieme a uno stuolo di musicisti di varia estrazione tra cui Carl Newman (dagli Zumpano) e la frontgirl Neko Case (avviata a una fortunata carriera solista).
Non mancano lapsus, digressioni "solo" come la classicista "Every Christmas" al piano, o l’avant-sperimentale "I.H.O.J.", che riportano ai primi vagiti del gruppo.
Nel 2000 il talento della formazione è già maturo, inconfondibile e più che mai prorompente. Bejar  naviga sicuro e senza argini in un ampio letto di fiume, coadiuvato dai compari strumentisti di provata abilità ("Death On The Festival Circuit", "Canadian Lover/Falcon's Escape", "Queen Of Languages").
Thief è un’opera personale ed emblematica, spartiacque tra ciò che è stato e ciò che sarà.

L’anno dopo, il 2001, è il turno di Streethawk: A Seduction (Misra), che focalizza le inclinazioni emozionali, i richiami al pop-rock anni 70 ripristinando quell’eleganza, quella grinta e il glamour, inquadrando al meglio questo “nuovo corso”; approntando ingegnose soluzioni formali che esaltano e illuminano i colori dei suoni.
Sintomatico l’avvio nella title track: “Hey girl, come on and take a whirl in my machine! (…) She said the city was dead and gutless. I cried for the city...”, quasi una riedizione della bowiana “Suffragette City”.
E’ l’approdo definitivo a un pop-rock sofisticato e saturo, riformulato negli accenti secondo i tempi correnti. "The Bad Arts" e "Beggars Might Ride", in apertura, sono esempi che variamente dimostrano, in partiture raffinate e vaste, imboscate e dolcezza in palpiti acustici (l’ode "Helena"), ballata sfarzosa e istinti power-pop. Insomma tutte le sembianze d’uno stile lussureggiante e screziato ("The Very Modern Dance"), che a tratti privilegia l’eremo "solo" e a tratti i richiami collettivi.
Streethawk è un album vitale e accurato, dalla forma musicale malleabile e sempre in grado di affrancarsi dalle immagini che suscita via via, percependosi a più livelli.
Se "Virgin With A Memory" è un’acustica esotica che sembra opera di Vinicius, "The Sublimation Hour" possiede estro e visioni dei Pavlov’s Dog, mentre il pianoforte su "The Crossover" è quello dell’Elton John sulla "Yellow Brick Road". L’inarrivabile ballad "Strike", sul finale, è poi sintesi quiet/loud, sigillo emblematico dei camaleontismi di Destroyer.

Il 2002 vede l’approdo della formazione di Vancouver alla corte Merge, gloriosa indie-label della Carolina con cui spiccare il volo di notorietà decisivo.
A questa novità determinante corrisponde un nuovo cambio di formazione, ora quartetto: oltre a Bejar (a chitarre, piano, synth e melodica), c’è Nicholas Bragg alla chitarra, Chris Frey al basso, Fisher Rose a batteria, violino, synth e piano.
Così equipaggiato, il gruppo canadese intraprenderà un tour mondiale di spalla ai Calexico.

This Night (Merge, 2002) è l’album in cui cambia anche il passo musicale. I nuovi brani si mostrano più ambiziosi e distesi, ma allo stesso tempo misteriosi, agitati – il suono di chitarra fa da padrone - non senza sperimentare ("Holly Going Lightly", "This Night").
Canzoni come elaborati cortometraggi d’ambiente notturno (come opportunamente propone il titolo), d’ampio respiro. Sono i resoconti del viaggio in Europa dal quale Dan Bejar è reduce, sono sbocco di meditazioni e scosse. L’autore interviene secondo inclinazione, setacciando puntuale e imprevedibile la storia del pop, assecondando il proprio umore e l’insolita versatilità, creando situazioni drammaturgiche, accrescendo umori psichedelici e retaggi cantautorali.
Questa particolare attitudine incide sulla durata complessiva dell’album, superiore ai precedenti di venti minuti. La critica, puntualmente spiazzata, è ora forse più scettica, ma il pubblico esulta, a ragione: la fruibilità non è certo relegata e Bejar dà impressione di saper fare ciò che vuole nella sala d’incisione assieme alla sua ricchissima "tavolozza".
La compiutezza formale arride e raggiunge il suo apice in brani come "Makin' Angels" e "Modern Painters"; "Trembling Peacock" con la sua cadenza potrebbe appartenere a Stephen Malkmus o Ben Folds, mentre "The Chosen Few", corredata di una chitarra flamenca, ha un’atmosfera che suscita i fasti della britannica él Records.
Toccante è la dedica acustica, afflitta e penetrante, di "Goddess Of Drought"; mentre è accattivante l’assorta "Students Carve Hearts Out Of Coal", incantata su un riff di chitarra, organo immaginifico e una performance sedotta e rapita da "questa notte". Notte percorsa dall’ambiziosa "Hey, Snow White", cavalcata epos di quasi otto minuti, fulcro del disco. Una chitarra distorta sullo sfondo e il crooning "perdido" nel flusso: sarebbe in effetti roba d’altri tempi, ma l’autore è abile a camuffare cinque minuti in due o tre e ogni peso si fa impalpabile.

Trascorrono due anni prima di giungere a Your Blues (2004, Merge), album che prosegue la strada intrapresa ma assieme è anche nuova nascita. Si rapporta al pop barocco e decadente, confermando Destroyer un gruppo reazionario mai disgiunto dalla ricerca di nuovo linguaggio, dalla necessità di uno stile personale.
L’incipit "Notorious Lightning" dapprima oscura, poi smaniosa ed esultante, è un tuffo al cuore, autentico accecamento.
Oh, Notorious Lightning! Yes, I had to ride you
And trash the crystal jets they kept in storage inside you!
I was told never to question it.
Now I'm facing twenty years for every night I tried to ingest the snow so lightly!

L'istrionico Bejar si lascia tentare dal gusto descrittivo e dall’espressività in crescendo di un Jarvis Cocker o da affreschi cantastorie a reminiscenza libera, ma non abusa né calca oltremisura le proprie doti vocali. Ci risparmia boriosi virtuosismi apportando (e incentrando) invidiabili misura e costanza nella serie di melodie luminose e approfondite da quest'album.
Poco o nulla rimane dei più ruvidi contenuti pop del combo New Pornographers (l’altra band in cui milita l’autore, che al contempo sforna buoni album): simili feticismi seventies s'imperniano sul Bowie navigatore astrale, sul Duca Bianco più suadente e spontaneo.
Ma primeggiano tocchi personali eccentrici: Daniel, vigile a non sminuire e immolare ogni cosa sull'altare del proprio ego, non spreca o limita potenzialità al puro rimando compiaciuto. Al gusto personale di citazione e d'infinito rimando, si privilegia il gusto dell'ascoltatore.
Dotato di un genuino sentimento "trovatore", Bejar si concede altresì, senza farsi prendere la mano, rigogli di pathos, contagiose fascination allestite da solide sezioni d’archi, che distinguono e timbrano i brani in scaletta. Si dimostra direttore altrettanto smaliziato che rifugge sinfonismi kitsch (pur memore, siamo certi, dei padri putativi Jeff Lynne, Eric Carmen e Todd Rundgren).
Il baccanale della prima “Notorious Lightning” schiude progressivamente un mosaico di colori accesi, diramando d’immenso tastiere e batteria. Il freno nella seguente “It's Gonna Take An Airplane” reagisce spontaneamente in un rifugio di pop leggero e vaporoso. Il metodo dell'album scongiura sospetti di indulgenza e presunzione, che magari sfioravano il precedente This Night. “An Actor's Revenge” è un'altra trionfale marcia tra arredi di tamburi, ritmi e cori misti in scorribanda, le cui fila presiede un crooning degno di Peter Gabriel.
Arie da primi Genesis anche su "New Ways of Living", tra lirismo e tastiere sognanti, mentre altrove fiati calibrati, danze di clapping e gioiosi cori arcadici illuminano “The Music Lovers”, altra canzone pop da manuale, con una coda strumentale folgorante.
Un’esibizione sofferta, appassionata e persino "weird" va a marcare sgargianti i paesaggi di “From Oakland To Warsaw”; “What Road” parte come rielaborazione creativa della stevensiana “Father And Son” per poi propagarsi e levarsi a suite “anni Settanta”, svelando panneggi tra trombe, sezione d'archi e rintocchi di campane.
Le arie dimesse di “Certain Things You Ought To Know”... e “Turn Into Snow” chiudono in bellezza un album suggestivo e memorabile, un’oasi salvifica tutta abbagli e climax.

Daniel Bejar - DestroyerDestroyer's Rubies (2006, Merge) è l’ottavo Lp di Destroyer, che giunge qualche mese dopo la pubblicazione dell'Ep Notorious Lightning And Other Works (2005, Merge). Quest’ultimo è un curioso lavoretto realizzato assieme ai victoriani Frog Eyes (backing band di Destroyer nei concerti dal vivo), in cui Bejar riplasma sei canzoni dal disco Your Blues, accentuando aggressività e destruttura pop-rock. La title track è tutta palpito isterico, pulsazioni chitarristiche para-psichedeliche e sospese che deragliano nel finale, tra una voce invasata e percussioni in orgia, mentre “New Ways Of Living” possiede l’estro e la verve nevrotica dei Pixies. Una riedizione attraente, che a volte sa di riscrittura.
È omnia-pop quello di Destroyer. Non dissimile dal precedente in studio, Destroyer's Rubies è l’ennesima sensazione, l’ennesimo tripudio ispirato da un autore di razza. Disco più integro e strutturato, meno "slegato" dei precedenti; che agilmente articola cambi d'accordo, pindarismi canori (definiti dall’autore i suoi più compiuti), tonalità “rubine”, in attrazione al titolo, squillanti o sottili, forme sposate assieme con perizia.
Tra esse, il coraggio di partire con una pop-suite “alla Destroyer”, ossia vivacissima e sviante, come “Rubies”: coriacemente indie, misto di enfasi e semplicità, essa sembra piover giù per grappoli di corde cristalline al tempo di ritmo percussivo.
Non manca l'equilibrio. Il talento visionario di Dan Bejar nutrendosi di ogni rock 70's, si svela stranito, fascinosamente torbido, romantico, ma con un motivo a presiedere. Si prendano i cambi dell'altra medley “Looter's Follies”, quasi un lento stonesiano in cui agiscono smaniose trame Television e lontani echi Beach Boys, o le eccitanti melodie sprigionate in “Painter In Your Pocket” e “Watercolors Into The Ocean”.
O ancora, i diluvi in nitide note di piano su “European Blood”; mentre “Sick Priest Learns To Last Forever”, tenebrosa e limpida, sembra decurtata da “Aladdin Sane” di Bowie.
I classicismi di “Your Blood” sono un sequitur dell'album “Blood On The Tracks” di Bob Dylan. A volte è infatti proprio lo stile acre e nervoso di Bob Dylan a far capolino stavolta, svelandosi e brillando nelle classicheggianti miniature di Bejar, tutto a favore dell’esuberanza e del ringiovanimento che compie questa proposta.

Nei dischi di Destroyer si percepiscono urgenze e memorie antiche, un melange dal fascino da tempo dimenticato nel pop-rock d'impronta nostalgica (e non solo). Bejar è senz'altro consapevole ma non condisceso od oppresso dal proprio ingegno e non si vieta alcuna soluzione. Potrebbe a ragione compiacersi ma non lo fa ed è un merito, si creda, pari alla notevole fattura della sua musica.

Su Trouble In Dreams (2008, Merge) emerge un tipo di forma-canzone "universale", capace e suadente, puntualmente ispirata e visionaria. Bejar attua un consapevole distacco da modelli e ideali passati, per liberare in completa autonomia e issare in alto la propria distinta natura.
Non è solo oratore e araldo della tradizione pop-rock, dialetticamente proteso tra vecchie e nuove età, che siano dalla Terra d’Albione e dalla canzone folk americana. Bejar è ormai un alchimista teso verso un modello individuale di classicità pop. Uno stile forte di lineamenti specifici, di una robusta, cauta eredità autoriale fatta di turbamenti e di sensi in subbuglio, che con maestria muove tasselli e sposta carte a ispirare nuove, interessanti variazioni, accattivanti sofisticazioni armoniche.
Più che mai efficace e duttile è la voce di Daniel, che si lanci concitata e incisiva su "The State" o "Rivers", o che imperversi suadente in "Foam Hands" o sulla esordiente "Blue Flower/Blue Flame". O ancora, appare guida ferma sulle raffinate e penetranti "Shooting Rockets (From The Desk Of Night's Ape)" e "Plaza Trinidad": maestosi brani sorretti e tesi da lancinanti riff di chitarra o frasi di pianoforte.
Trouble In Dreams è nell’insieme un lavoro descrittivo e "panoramico", lo sbocco di reazioni e sintesi con gli album del passato, senza essere meramente decorativo o indulgente. Il suo particolare dinamismo armonico è funzionale all’ingresso in un reame alla Lewis Carroll, ove ogni cosa è dipinta passionale e, seppure verosimile, alterata. Un luogo insomma in cui ogni valico è imprevedibile, ogni passaggio è dipinto emozionante, come insegnano la distesa luminosità di "Leopard Of Honor" e l’ennesima passionale, non perfettibile gemma targata Destroyer: "Dark Leaves From A Thread"; ideale di semplicità di scrittura pop portata in gloria da un autentico arsenale di strumenti in festa.
È come ritornare bambini, incantati all’ascolto di fiabe di cui non si conosce l’esito o il risvolto, per cui si prova trepidazione.

Imprevedibile il futuro che attende Daniel Bejar e i suoi tanti progetti, in particolare la propria creatura prediletta Destroyer, concepita assieme alla ciurma di amici collaboratori e strumentisti.
Ma lo spettacolo musicale inscenato in questi primi dodici anni merita attenta memoria, riguardo e acclamazione costante.

"There is a certain kind of person to whom things come with great facility. They say this is the noise that gets made as my life is lived. So be it. But don't feel the need to record it."
da "Grief Point"

Questo si trova a dire Bejar, poi, nella collaborazione col suo batterista Scott Morgan, aka Loscil, nell'"Endless Falls" di quest'ultimo, e nel proprio Ep "Archer On The Beach", pubblicato nel 2010 a seguito di "Bay Of Pigs", dell'anno precedente. Queste due uscite vedono il Nostro avventurarsi in territori nuovi, in particolare ambient.

Molti hanno pensato che, con le sue ultime due uscite, i due assaggi di quanto verrà nel prossimo futuro (nel già annunciato "Kaputt", che uscirà all'inizio del 2011), Dan Bejar si sia dedicato alla sistematica "distruzione" di se stesso, dei propri umori musicali, di quel cantautorato un po' dandy, da loft riccamente arredato di libri e sciccherie della downtown di Vancouver. Fatto, come un buon vino da degustazione, di sfumature strumentali e testi dal deciso gusto letterario.
Eppure, alla fine, viene fuori che Destroyer è sempre lo stesso. Forse una visione così dicotomica farà inorridire, ma la sensazione è i due Ep pubblicati in questi due anni - questo Archer On The Beach e lo scorso Bay Of Pigs - rappresentino due facce contrapposte di una stessa evoluzione musicale e, ancora di più, autorale.


Nel caso precedente avevamo assistito a grandiosi affreschi letterari, in cui Bejar riusciva in modo incredibile a trascendere se stesso e il concetto di cantautorato. Bay Of Pigs è una traccia dalla potenza visiva netta, scolpita. Dall'inizio metafisico, in cui Destroyer pareva parlare dall'interno del monolite kubrickiano, avvolto dal rumore di fondo di profondità interiori, Bejar ricostruiva a poco a poco il suo eloquio affascinante, e tutto sembrava farsi più netto, nel progressivo accavallarsi elettronico che restituiva il pezzo al ritmo del mondo. Una passeggiata pensierosa sulla baia di un fiordo canadese, il bavero alzato e la folta capigliatura al vento, libere associazioni che sbocciano in una primavera sinaptica.
Si ricostruiva, insomma, l'etichetta Destroyer, quel richiamo intellettuale understated, incurante del mondo e, allo stesso tempo, a esso aperto, che da sempre lo caratterizza.

In Archer Of The Beach il tema è invece la spoliazione, una solitudine ossessiva, rinchiusa tra le mura di un isolamento auto-imposto, claustrofobico. Non è una semplice inversione di atmosfera, del tutto legittima: suona come un'involuzione capricciosa, laddove Bay Of Pigs sembrava invece un mirabile potenziamento delle proprie capacità espressive (dimostrato anche nella riproposizione di "Ravers", da Trouble In Dreams).
Le collaborazioni con maestri contemporanei dell'ambient come Tim Hecker (nella title track) e Loscil (nella b-side "Grief Point") produce effetti inibitori, piuttosto che il contrario.
La prima traccia vede un semplice tema pianistico muoversi in un mondo sommerso da tempeste non solo meteorologiche, ma anche sociali. Questa pare essere un'interpretazione dei tuoni, degli scrosci di pioggia in sottofondo, accompagnati dai fischi e dai ritmici battiti di mani di una folla di manifestanti. Ma il periodare ermetico di Bejar ("Careful now, watch your step/ In you go!/ The Ash King's made of ashes/ The Ice Queen's made of snow.../ And Archer's where you left him/ With his arrows stuck inside a peach.../ Awake on your crutches in the moonlight/ Archer on the Beach!") non splende più, pare il farfugliare incomprensibile di un profeta dell'Apocalisse, incompreso dai più, in cerca di adepti agli angoli delle strade.
Viene poi "Grief Point" a confermare e acuire la sensazione. Uno spoken word che vede Destroyer declamare con voce spenta dal proprio zibaldone, del quale sentiamo le pagine consunte. I rumori angoscianti di un'ambulanza, di un cane che abbaia, del citofono si intervallano alle faccende di Dan: a completare il quadro del suo racconto notturno di esorcizzazione della propria depressione (un estratto: "I have lost interest in music. It is horrible.") si aggiunge naturalmente il rumore di un whisky versato in un bicchiere pieno di ghiaccio. Notte da lupi! Che Loscil non manca di sottolineare con una solenne processione funebre, là dietro le quinte...

L'attitudine ad ambiziosi cambiamenti palesata nei due Ep, viene ben presto confermata da un nuovo lavoro sulla lunga distanza, il nono della serie. La scelta caratterizzante Kaputt risulta infatti fin da subito elegante e accogliente, attingendo a piene mani da soffici velluti e lustrini eighites, che fin da subito ammaliano con pulsazioni sintetiche e riverberi liquidi, che disegnano un morbido lounge-soul impreziosito da sinuosi inserti di sax. L'effetto è anche piacevole nell'iniziale "Chinatown", così come lo è pure il ricercato contrasto tra la brillantezza dell'abito sonoro dei brani e l'immaginario post-apocalittico di molti dei testi. Tale dicotomia ricorre peraltro in ampi tratti del lavoro, la cui tematica permane sospesa in bilico tra omaggi a Beatles e New Order e ironiche citazioni della stampa musicale inglese, nonché tra pungenti scorci di una contemporaneità decadente e accenni di una sagacia che però sfocia piuttosto in compiaciuto narcisismo ("This song for America, they told me it was clever", "I heard your record, it's alright").
A ben vedere, è proprio questa la cifra narrativa di un disco incentrato appunto sul doppio binario da un lato della sublimazione di un piacere effimero, che deliberatamente richiama una patinata estetica retrò, e, dall'altro, di una dissacrazione della contemporaneità occidentale. La scelta è senz'altro singolare ma, alla luce dei risultati, alquanto inconcludente, tanto dal punto di vista della credibilità dell'effetto complessivo, quanto da quello dell'efficacia di una scrittura scarna e disarticolata, che anzi spesso si ritrae dietro le quinte per lasciare spazio a soffici texture sintetiche, claudicanti linee chitarristiche, ampie divagazioni al sax e pulsazioni da sofisticata pop-dance anni Ottanta. Non è certo l'idea in sé a essere malvagia, tanto che le ambientazioni sonore sono curate e ben riuscite, ma la loro sostanziale monotonia, unita alla debolezza di buona parte dei brani (con le parziali eccezioni di "Chinatown", "Savage Night At The Opera" e della bowiana "Poor In Love") sfocia ben presto in una sensazione di piatta stucchevolezza, che lascia decisa l'impressione che Bejar questa volta si sia fatto prendere fin troppo la mano dalla smania di inventarsi qualcosa di diverso, concentrandosi quasi soltanto sulla forma di una musica rifinita con curata eleganza e tuttavia incapace di colpire e farsi amare al di là di un livello epidermico.

Era indubbio che i panni del dandy sofisticato che solo due anni anni fa licenziava Kaputt avrebbero cominciato a star stretti all'inquieto polistrumentista nell'arco di brevissimo tempo, non vi era proprio margine d'errore a tal riguardo. Stavolta però, la dipartita è ancora più radicale del solito. “L'inglese nel 2013 sembra aver detto tutto quello che aveva da dire. È una lingua buona per le transazioni di lavoro, ma finisce lì”: come a dire che lo stravolgimento a questo giro è ancor più sostanziale che in passato, e che il “disagio” artistico di questo vagabondo da Vancouver ha dovuto volgersi ancora più in là, per trovare conforto alla propria insaziabilità. Il risultato, per l'ennesima volta, rispecchia pienamente il suo autore.
Con i soli Nicolas Bragg e John Collins dei Destroyer a venire in soccorso a Bejar a questo giro (il tastierista Ted Bois è occupato esclusivamente della fotografia del lavoro), e numerosi contributi esterni a completare il parco musicisti, Five Spanish Songs è, come da titolo, opera interamente interpretata in lingua spagnola, Ep che taglia i ponti con la tradizione anglosassone, omaggiando infine la lontana patria di Dan, mai dimenticata dallo stesso, finanche coltivata a partire dalla stessa lingua. Semmai, a stupire è la modalità del tributo: nessun ricorso a chitarre latine, nessun passo di flamenco, niente di niente nel sound che possa rimandare anche lontanamente a calorose ambientazioni iberiche. Per l'occasione, l'autore di Vancouver è andato infatti a ripescare alcune tra le migliore canzoni di Antonio Luque, cantautore di Siviglia che con i suoi Sr. Chinarro ha scritto alcune delle pagine più importanti del pop ispanico. A Bejar è spettato l'arrangiarle e il riadattarle alla propria sensibilità, conferendo loro il suo tocco riconoscibilissimo, quell'attitudine da indie-cosmopolita che ne ha segnato la carriera.
Un tocco che, rincresce dirlo, stavolta convince ben poco: la penna senz'altro è di buon spessore (“Maria de las nieves”, cullante sinestesia pop dalla produzione fortemente dreamy,  e “Bye Bye”, qui suonata interamente in acustico, sono tutt'altro che brani insignificanti), e la raffinatezza compositiva di Bejar sempre di notevole livello (si ascolti il taglio samba-funk a descrizione di una più trascinante “Babieca”, oppure il mordente sguainato dalla chitarra nel piglio rock di “El rito”), ma ciò che manca ai brani è una rilettura realmente decisa da parte dello stesso interprete, una performance che lasci per davvero il segno.
Nell'ambito di pezzi così rigorosamente strutturati, la voce di Dan, avvezza più che altro a suggestivi flussi di coscienza, non trova il suo contesto più naturale, diventa quasi la caricatura di se stessa, complice anche la scelta di una lingua, che mal si adatta al suo timbro flebile, da intimo cantastorie. La passione insita negli originali qui fa insomma fatica ad essere trasmessa con la stessa intensità, il lirismo intricato dei testi di Luque quasi snaturato in questo contesto.
Questo ritorno alle origini sarebbe insomma da rivedere: se non dalle fondamenta poco ci manca.

Bejar persegue imperterrito un suo ideale di musica slegata dai trend attuali e dalle contingenze del momento. Il mondo dischiuso da Poison Season (2015) è un eden per inguaribili romantici, il cui accesso non è così immediato come in Kaputt, di cui riduce la patina new romantic per retrocedere di un decennio e riscoprire l’universo dei 70's. Non che gli anni 80 siano spariti del tutto: fanno, ad esempio, capolino nella big music di “Dream Lover”, il singolone in odore Waterboys che prende i sax vellutati di “Kaputt” e li fa deragliare in un turbinio sonoro ebbro e follemente su di giri. Ma il capolavoro del disco è “Forces From Above”, un chamber-pop dall’afflato spirituale, con una sezione d’archi magistrale, quasi cinematografica, che fa da contraltare al pulsare delle percussioni, in odore Mpb, e alla rotondità del basso funkeggiante. Meno efficace il trittico successivo: “Hell” è la versione in miniatura di “Forces From Above”, e non può che far la figura del topolino dopo una simile perla; se pur più ordinaria e classicista, prende meglio la malinconia pacata di “The River”, una delle tante prese di posizione di Destroyer contro la frenesia della vita cittadina, da cui esorta a fuggire. Un videoclip surreale e vagamente dark fa da supporto a “Girl In A Sling”, traducendone la storia di isolamento e alienazione in evocativi “paesaggi” di periferia abbandonata e desolata.
“Times Square”, ode definitiva a New York City, brilla come certo luccicante soft-rock degli anni 70, tra sax festosi e reminiscenze bowiane nemmeno tanto velate. Altro picco di un disco che forse non manterrà la stessa consistenza qualitativa nel corso della sua durata, ma quando riesce, incanta. E così tra funk notturni (“Archer On The Beach”), scalmanati rock'n'roll ("Midnight Meet The Rain") e meditabonde ballate metropolitane (“Bangkok”) si respirano atmosfere di classe inimitabili a cui davvero è difficile resistere, anche laddove si tingono di una nota di manierismo.

Confermando la rinnovata vena creativa, a soli due anni di distanza Dan annuncia il nuovo album Ken, ennesimo tassello di un percorso artistico ad ostacoli, un altro passo avanti verso l'affasciante e silente sinergia tra la forza della parola e la fragilità della musica, che è diventata quasi un marchio di fabbrica per la band canadese.
Le premesse sono interessanti, perché il nuovo album dei Destroyer rinuncia agli abbellimenti degli archi e ai fiati in stile soul-jazz di Poison Season, tutto ciò a favore di asciutte e minacciose trame elettroniche che rimettono in gioco le cupe asperità e le contagiose armonie pop di gruppi come i New Order o i Prefab Sprout

Il gioco delle citazioni e dei richiami non è una novità per Dan Bejar, ma questa volta è tutto leggermente più impertinente e indisciplinato mentre le canzoni scorrono con maggior naturalezza e incisività, spostando l’orologio dai 70 agli 80.
C’è la stessa forza armonica dei Prefab Sprout di “When Love Breaks Down” in “Sky’s Grey”, o lo stesso gusto folk-pop dei Dream Academy nel delizioso refrain di “Sometimes In The World”, mentre in “Tinseltown Swimming In Blood” tornano a pulsare le cupe trame dance dei New Order di “Blue Monday”.

In questa carrellata di citazioni, che risulterà forse irritante per i detrattori di Bejar, si inserisce una leggera teatralità che alleggerisce la tensione, facendo fluire glam, pop, dark ed elettronica tra situazionismi sonori alla Cure (“In The Morning“, “Ivory Coast”) e inaspettate ballate folk-psych, che potrebbero uscire benissimo da un disco di Robyn Hitchcok (“Saw You At The Hospital”) o Momus (“A Light Travels Down The Catwalk”).

Ancora una volta, tra i bagliori del suono delle chitarre e i chiaroscuri dell’elettronica, si rinnova quell’amabile sinergia che da sempre fa da sottofondo a creazioni liriche dal diverso lignaggio, e tra festose trame glam-pop (“Cover From The Sun”) e ambiziose trame noir (“Rome”), si perfeziona uno dei più interessanti quadri sonori mai espressi dalla band canadese.

Mentre mode pop passeggere vanno e vengono, l’arte di Dan Bejar è cristallizzata in una dimensione atemporale, senza uno spazio definito, se non quello interiore, dell’anima. Perché puoi girare tutte le capitali del mondo, ammirarne i luccichii e il clima di festa. Ma Bejar in fondo ci dice che, alla fine della fiera, siamo tutti irrimediabilmente soli.

Con Have We Met Dan Bejar arriva al dodicesimo capitolo della discografia targata Destroyer. Un disco interessante poiché convivono all'interno aspetti peculiari dell'autore insieme a scelte e stacchi rispetto alle precedenti fasi. La formazione che accompagna il canadese non è mai stata così scarna e vede John Collins ai synth, macchine e produzione e il chitarrista Nicolas Bragg: un saldo binario dove concedersi completamente per pensare a testi e performance vocale. Un cantato spesso rasente la sentita e intima confidenza, forse più per se stesso che per l'ascoltatore. A marcare tale aspetto, il fatto che il canadese abbia registrato la parti vocali in cucina a tarda notte direttamente su Garage Band: ciò che sentiamo nelle tracce finali è il frutto al massimo della seconda take casalinga. Riecheggia molto il Cohen di “You Want It Darker”, ma il manifesto musicale attuale lo declama Bejar stesso in “Cue Synthesizer”, dal titolo già abbastanza esplicito.

Ci si potrebbe aspettare un disco freddo e asettico, dove gli esperimenti al computer prendono il posto dell'anima, invece l'iniziale "Crimson Tide" ci mostra tutt'altro, palesando anche un tocco melodico molto cathcy, che sfocerà nel bel singolo apripista "It Just Doesn't Happen". Abbandonata l'idea di fare un album sul millennium bug, Dan Bejar non abbandona la preoccupazione e le riflessioni per questi tempi moderni e continua a essere uno dei songwriter più ampli e versatili in circolazione, senza perdere un grammo di oscura intensità e quieta malinconia. Scortato dal caldo e ormai marchio di fabbrica timbro vocale, l'autore inserisce all'interno nel disco una sequela di protagonisti tormentati alternati a stream of consciousness, come "The Raven", la canzone più bella insieme a "The Man in Black's Blues".

Lavoro coeso e ispirato, chiuso dal bellissimo slancio di chitarra di “Foolsong”, Have We Met ci presenta - parafrasando il tanto amato Cohen - l'ennesima gradita new skin for an old ceremony di Bejar, continuando così un percorso musicale tra i più artisticamente validi degli ultimi decenni. 


Nel 2022 arriva Labyrinthitis. Un album intricato, che sa essere vigoroso e delicato, esattamente come i rami dell’albero che compaiono in copertina, forti e robusti ma dipinti con la leggerezza dell’acquerello da un animo elegante ma misterioso, forse a volte un po’ aspro, che si dirama in modo contorto.
Un albero che è da solo una foresta, in cui albergano l’animo nudo dell’uomo, senza fronzoli (o fronde) a coprirlo e quello camuffato del musicista.
 
È proprio questo che Dan ha voluto svelarci in questo nuovo capitolo della sua storia. Ha deciso di farlo con trame nuove e audaci, approcciando la sua classica materia sintetica in modo sorprendente, mai così elettronico e progressivo, mai così consapevole degli insegnamenti del lato più "art" della new wave ballabile e decadente di BowieEno e Talking Heads, ed allo stesso tempo mai così attento ad esprimersi completamente, umanamente e artisticamente.
Il tappeto sognate e il testo toccante e minimale di “It’s In Your Heart Now” danno il via alle danze che diventeranno veramente tali già dalla successiva palpitante “Suffer”.
L’ottimo trittico iniziale si chiude con la prima gemma del disco “June”, che trasfigura la soft music anni ottanta attraverso strategie produttive che le danno un retrogusto psichedelico fino alla coda finale che combina queste trovate oniriche con ritmi funk e un inatteso e intenso spoken word che si disperde lentamente tra suoni disturbanti.
 
La successiva “All My Pretty Dresses” riporta per un attimo la mente ai tempi di “Kaputt” prima che si palesi il vero manifesto e capolavoro del disco.
“Tintoretto, It’s For You” è una canzone selvaggia e conturbante in cui Destroyer, tra grovigli di synth, chitarre e pianoforti, riporta in vita con voce luciferina l’animo ribollente dell’artista a cui è dedicato il titolo.
La rilassatezza malinconica e strumentale della title track dà respiro dalle impetuose stravaganze di Dan e riesce con grazia a toccare l’ascoltatore prima di farlo rituffare tra ritmiche funky-dance che rimangono soprattutto in territori chiaroscurali (“Eat The Wine, Drink The Bread”, “The States”) ma concedono spazio anche a sentori più solari (“It Takes A Thief”), forse non a fuoco ed eclatanti come nella prima parte del disco ma comunque ben riusciti.
 
Il dipinto di Destroyer si conclude in modo didascalico ma anti-intuitivo, e per questo leggermente malizioso, con “The Last Song”, che ci saluta dopo un viaggio tra intrecci di ritmiche e battiti frenetici, di parole e melodie focose, con la semplicità di una breve ballad elettroacustica che lascia Dan spoglio e stremato a guardarci forse un po’ gongolante dal multiforme albero delle sue idee, perché in fin dei conti lui sa benissimo chi è e, anche se non ne aveva particolare bisogno, è convinto di avercelo mostrato ancora una volta.



Destroyer

Discografia

DESTROYER

We'll Build Them A Golden Bridge (1996, Tinker)

6

Ideas For Songs (cassetta, Granted Passage, 1997)

6,5

City Of Daughters (Triple Crown Audio/Endearing, 1998)

7,5

Thief (2000, Catsup Plate)

7,5

Streethawk: A Seduction (2001, Misra)

7

This Night (2002, Merge)

7

Your Blues (2004, Merge)

8

Notorious Lightning And Other Works Ep (2005, Merge)

6,5

Destroyer's Rubies (2006, Merge)

8

Trouble In Dreams (2008, Merge)

7

Bay Of Pigs (Ep, Merge, 2009) 7
Archer On The Beach (Ep, Merge, 2010) 5,5
Kaputt (Merge, 2011) 5
Five Spanish Songs (Ep, Merge, 2013)5,5
Poison Season (Merge, 2015)7
Ken (Merge, 2017)7,5
Have We Met (Merge, 2020)7
Labyrinthitis(Mertge, 2022) 8
NEW PORNOGRAPHERS
Mass Romantic (Mint, 2000)8
Electric Version (Matador, 2003)

7

Twin Cinema (Matador, 2005)9
Challengers (Matador, 2007)6,5
Together (Matador, 2010)
Brill Bruisers (Matador, 2014)
Whiteout Conditions (Collected Works, 2017)

Pietra miliare
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