Jason Molina

Jason Molina

Il cantore dell'introversione

Schivo songwriter nato a Lorain, Ohio, Jason Molina ha costruito attraverso le sue varie esperienze - prima tra tutte quella dei Songs: Ohia - una peculiare rivisitazione della canzone americana, incentrata sulla dolente e personalissima contaminazione tra intimismo, minimalismo rock e tradizione folk-country. Nel 2013, dopo ripetuti abusi di alcol, la sua tragica fine

di Raffaello Russo

Tra i tanti artisti che nell'ultimo decennio hanno contribuito a rivitalizzare e rinnovare la tradizione cantautorale americana, un posto di sicuro rilievo occupa la figura di Jason Molina, autore capace come pochi di assumere vesti sonore anche molto diverse tra loro e sempre aperto a contaminazioni e trasformazioni del suo sofferto songwriting.
La sua complessa discografia è infatti molto varia e tanto ricca di collaborazioni, a volte anche piuttosto ardite, da potersi a ben ragione affermare che gli unici elementi comuni tra tutte le sue produzioni sono la sua scrittura e la sua voce, fragile e profonda allo stesso tempo, mentre di volta in volta si sono avvicendati i musicisti che lo hanno accompagnato e persino i nomi sotto i quali le sue opere sono state licenziate (Songs: Ohia, Jason Molina, Magnolia Electric Co.).
Ma, anche quando uscite sotto le sembianze di una band, il loro fulcro è sempre stato lui, Jason Molina, cantautore nato a Lorain, Ohio, i cui inizi musicali hanno avuto luogo in quel di Richmond, come bassista in alcune band metal, nel corso dei primi anni 90. Nel frattempo, il giovane Molina si dilettava anche a registrare cassette autoprodotte, nelle quali già dava sfogo al suo animo inquieto attraverso scarne composizioni di sola voce e chitarra. A una di questa cassette - finita tra le mani di Will Oldham e da questi molto apprezzata - Molina deve la sua vera e propria nascita musicale, ufficialmente collocabile nel 1996, con l'uscita, non a caso per la Palace Records, del singolo "Nor Cease Thou Never Grow", due pezzi malinconici ed essenziali, molto vicini allo stile di Oldham, pubblicati sotto il moniker di Songs: Ohia (quest'ultimo termine è da considerarsi legato sia a una storpiatura locale del termine Ohio, sia al nome di una pianta ornamentale originaria delle Hawaii, da pronunciarsi, a quanto pare, semplicemente "ia"), che accompagnerà poi il nostro per la maggior parte dei successivi lavori.

Se questo singolo e anche il successivo "One Pronunciation Of Glory" rivelano già le capacità compositive di Molina, evidenziandone altresì il lirismo e l'intensità interpretativa, restano entrambi molto legati a canoni musicali estremamente classici, vicini a quelli del suo scopritore Will Oldham e idealmente collocabili nella scia delle tante produzioni alternative-country. Anche l'omonimo album di debutto di Songs: Ohia, uscito nel 1997 per Secretly Canadian (etichetta alla quale Molina legherà poi tutta la sua carriera artistica), ripercorre quella tradizione, in tredici ballate elettro-acustiche da cameretta, essenziali ma romantiche, che denotano una sensibilità musicale non comune, seppure ancora un po' acerba.
I brani dell'album di debutto presentano toni invariabilmente dimessi e un timido approccio compositivo, non certo privo di calore, ma in apparenza più attento a costruire canzoni in maniera pulita che non ad andare un po' oltre la pur valida riproposizione di uno stile cantautorale classicamente americano. Tuttavia, in brani come "Cabwailingo", "Dogwood Gap" e "Little Beaver" si intravedono già i germi di uno stile compositivo intenso e per nulla banale, che si manifesterà poi più compiutamente nel successivo album Impala, nel quale Molina inizia a discostarsi maggiormente, anche nei testi, dagli schemi dell'alt-country. Lo si capisce subito all'ascolto della prima traccia di quel lavoro, "Gambling Man", un lenta elegia di quasi otto minuti, nella quale vi sono già tutte le caratteristiche per le quali Molina si è fatto maggiormente apprezzare, ovvero il cantato malinconico e intimista su atmosfere sospese, ma di grande intensità emozionale.
Ma non per questo Molina abbandona improvvisamente le proprie radici musicali: anzi, benché la sua voce si faccia più sicura e modulata e le ambientazioni sonore più varie e ricercate, sullo sfondo rimangono sempre i paesaggi della tradizione americana, che ora diventano protagonisti delle sue composizioni ("45 Degrees", "Anchors"), ora si intravedono appena, calati in una sensibilità musicale complessa, ampiamente spaziante tra songwriting tradizionale, suggestioni "indie" e lirismo romantico.

Se insomma l'album di debutto era ancora fin troppo legato all'influenza del suo padrino musicale, Will Oldham, Impala si può a ragione considerare l'autentico preludio artistico del Molina autore e cantante, forse ancora acerbo, ma ormai capace di camminare con le proprie gambe per crearsi uno stile musicale autentico e riconoscibile.

L'accresciuta sicurezza e definizione artistica di Molina allarga in maniera decisiva i suoi orizzonti musicali: ora che il suo nome inizia ad affermarsi nel panorama indie e alt-country, Songs: Ohia inizia ad assumere le sembianze di una band, aprendosi a collaborazioni ed esperienze diverse, attraverso le quali percorrerà strade più o meno complanari alle sue origini musicali, ma comunque rispondenti a non altro che alla volontà di conoscenza del suo creatore, da sempre tanto diffidente nei confronti dei produttori, quanto disposto a mettersi continuamente in discussione.
È il 1999, l'anno dell'uscita di Axxess & Ace, nove brani intimamente personali, quasi tutti dedicati a temi amorosi, registrati per la maggior parte dal vivo, con il contributo della voce calda e soffice di Edith Frost e il supporto strumentale di musicisti attivi in band di tutto rispetto nella scena di Chicago, quali Rex, Pinetop Seven e Boxhead Ensemble. In questi brani, il suono diventa più strutturato e incisivo rispetto agli esordi, mentre lo stesso cantato di Molina, ottimamente contrappuntato da quello della Frost in "Love Leaves Its Abuser" e "Captain Badass", guadagna in fluidità e lirismo, si fa intenso e profondo, denotando grande partecipazione emotiva ai testi, come in "Captain Badass" e "Come Back To Your Man".
Il risultato è una generale maggiore immediatezza: laddove prima erano solo semplici canzoni, timide e sonnolente, vi sono ora intense ballate che mirano a coinvolgere l'ascoltatore, tanto dal punto di vista strettamente musicale che da quello emotivo. E tale intento viene raggiunto in quasi tutti gli episodi, tra i quali meritano una segnalazione le aggraziate ritmiche di "Captain Badass" e l'intenso violino di "Come Back To Your Man" e "Champion", anche se non mancano ancora passaggi più ruvidi e acerbi ("Hot Black Silk", "Redhead").

Ma Molina è artista ormai distante - nell'approccio, non nel mood - dal ragazzo timido e impacciato dei suoi inizi musicali, vissuti quasi in contemplazione dei mostri sacri della canzone d'autore americana, da Bob Dylan a Will Oldham, passando per Neil Young. Molina possiede a questo punto un'impronta musicale definita, incorniciata dalle sue interpretazioni sommessamente sofferte e dal suo particolare modo di suonare la chitarra (un'elettrica dalle sembianze acustiche, spesso trasformata in chitarra baritono con l'utilizzo delle sole quattro corde basse).
Siamo nel 2000, al centro dell'attenzione della critica c'è il cosiddetto "post-rock" e Molina si sente tanto sicuro da poter sperimentare nuovi orizzonti musicali nel suo modo di comporre e suonare: lo farà nel corso dell'anno con ben due album, dalle sembianze tra loro diversissime, realizzati con l'ausilio di collaboratori davvero imprevedibili. Per il primo, The Lioness, si trasferisce in Scozia, dove lavora fianco a fianco con Alasdair Roberts (Appendix Out) e soprattutto con Aidan Moffat e David Gow (Arab Strap), che contribuiscono all'opera in maniera tanto cospicua da poter quasi attribuire all'album una paternità condivisa.
Frutto di quest'ardita collaborazione sono nove brani di intensità straordinaria, all'interno dei quali trovano un equilibrio perfetto le cupe atmosfere nord-europee degli Arab Strap e il lirismo del songwriter americano, relativamente più solare, ma connotato da una sensibilità non dissimile, naturalmente portata a una sofferta introspezione, qui evidente in scarne e vibranti ballate elettroacustiche dall'andamento solo in apparenza compassato. Da esse promana una tensione interiore che la voce di Molina è appena in grado di soffocare negli interstizi tra una nota e l'altra, a volte appena prima che le chitarre occupino la scena in aspri crescendo strappalacrime ("The Black Crow", "Tigress"), oppure che il suono dell'organo ammanti le sue composizioni di solennità drammatica.
Il cuore del lavoro è ancora costituito dalle dolenti ballate ("Being In Love", "Lioness", "Just A Spark") che sviscerano i meandri dell'amore in maniera tutt'altro che banale e senza facili cedimenti sentimentali, rendendo bene l'idea di cosa muova l'inquieto animo di Molina nella sua impellenza della scrittura e dell'espressione musicale. Forse è proprio per questo che The Lioness rimane la vetta assoluta della sua discografia, raggiunta anche attraverso il coraggio di mettersi in discussione, sia come uomo che come artista, per esplorare esperienze musicali diverse, mantenendo allo stesso tempo intatte, e anzi esprimendo al meglio, le proprie capacità di autore e interprete. L'eccellente deluxe reissue del 2018, intitolata Love & Work: The Lioness Sessions, porta in dote altre 11 splendide canzoni inedite.

Non raggiunge invece gli stessi livelli di eccellenza l'altro lavoro generato da una non dissimile matrice concettuale, Ghost Tropic, registrato in quasi totale isolamento, con il contributo ancora di Alasdair Roberts e di membri dei Lullaby For The Working Class. L'album rappresenta la personalissima interpretazione da parte di Molina di sonorità destrutturate, idealmente vicine al minimalismo e alle sperimentazioni post-rock tanto in auge in quel periodo, dimostrando la grandissima versatilità di un autore evidentemente non soddisfatto di essere computato soltanto nel novero sconfinato dei cantautori alt-country. Le doti artistiche di Molina, sia ben chiaro, gli permettono di non soccombere del tutto di fronte alla coraggiosa scommessa di calarsi in "abiti" sonori così distanti dalla sua originaria sensibilità musicale, anche se per farlo dovrà inserire la sua carica emotiva attraverso le tante sospensioni temporali disegnate da dilatazioni sonore costellate dalle tante percussioni, vibrafoni e persino dagli spettrali echi campionati dei due (superflui) interludi strumentali che danno il titolo al lavoro.
Forse l'allontanamento da registri espressivi più ortodossi è qui troppo brusco e spiazzante persino per lo stesso autore, la cui preziosa vena lirica, per quanto qua e là affiorante con decisione ("Body Burned Away" ed "Ocean's Nerves"), finisce per disperdersi in atmosfere estremamente essenziali, ipnotiche, oscillanti tra fascinazioni ambientali e inquietanti litanie al rallentatore ("Not Just a Ghost's Heart" e "Incantation", dodici minuti ciascuna) che paiono personali e non entusiasmanti reinterpretazioni dell'oscuro folk dei Current 93.

A un'annata contrassegnata dall'uscita di ben due impegnativi album (cui va aggiunto anche il limitatissimo tour-cd Protection Spells), ne segue una priva di pubblicazioni ufficiali, nel corso della quale, però, l'infaticabile Jason trova ugualmente il tempo per mettere insieme molto materiale interessante, ponendosi ancora una volta alla prova per gettare le basi delle sue opere a venire. Testimonianza di ciò traspare nella registrazione live, realizzata nel corso del tour italiano del 2000, degli otto brani di Mi Sei Apparso Come Un Fantasma, nei quali Molina non solo abbandona la sua chitarra baritono in favore di una canonica sei corde, ma è per la prima volta supportato da una band stabile, pronta a tradurre in musica le sue ispirazioni, con uno stile ben più tradizionale di quello degli ultimi album.

Se infatti Ghost Tropic aveva segnato il punto più distante dagli inizi della sua parabola musicale, il successivo Didn't It Rain inverte il percorso, restituendo Molina a un songwriting come sempre intenso e intriso di malinconia, ma ora nuovamente attestato su binari classici, costruiti con cura in un intreccio di folk, blues e country. Ma, nonostante gli ingredienti della sua formula musicale siano ben noti, Didn't It Rain finisce per consacrare un autore e una band capaci di andare oltre la mera ricerca nostalgica di un polveroso antiquariato sonoro - cui potrebbe far pensare la registrazione in presa diretta del lavoro - per procedere invece a un'attualizzazione, non priva di coraggio, del canovaccio alt-country, qui pienamente raggiunta attraverso eleganti ballate dal passo sommesso e rallentato, tali da far risaltare il calore umano e il lirismo interpretativo di Molina. Così, "Cross The Road, Molina" e "Ring The Bell" sono scarne ballate blues, spogliate dalla loro potenziale asprezza sonora per essere tradotte in un alfabeto musicale di grande sensibilità romantica, tale da conferirvi una preziosa vena intimista, tra echi di Oldham e ispirazioni alla Smog o Red House Painters. "Steve Albini's Blues" e la conclusiva "Blue Chicago Moon" sembrano invece personali rivisitazioni di classiche ballate alla Neil Young, costruite intorno a pochi giri di chitarra e supportate da un'inappuntabile sezione ritmica, che conferisce ai brani un'impronta codeinica, perfettamente adeguata all'invariabile pessimismo dei testi di Molina, ancora incentrati su desolazione, solitudine e abbandoni, ma pure in qualche modo aperti alla speranza che balena alla fine di "Blue Chicago Moon" e si esprime anche nel crescendo d'intensità emotiva di "Blue Factory Flame" e nell'incantevole bozzetto "Two Blue Lights", nei quali spicca la voce aspra e cristallina di Jennie Benford.

Ormai stabilizzatosi su questa sua personalissima cifra stilistica, Molina fa uscire, nel volgere di pochi mesi, a nome proprio o della band, vari singoli e collaborazioni, tra le quali va segnalata in particolare, ancora nel 2002, la partecipazione in prima persona, con un paio di nenie dai toni dilatati e quasi immobili, al progetto Amalgamated Sons Of Rest, che lo vede al fianco di Alasdair Roberts e del suo vecchio "maestro" Will Oldham, accanto al quale il nome di Molina risplende ora di luce propria, presentando senza dubbio pari dignità.

Ma già l'anno successivo Molina rimescola ancora le carte, con un lavoro il cui connotato blues elettrico traspare fin dal titolo, The Magnolia Electric Co.. L'album segna un'altra delle tante svolte nella carriera di Molina, prima su tutte il sostanziale abbandono del moniker "Songs: Ohia", che lo aveva accompagnato fin dai suoi esordi. Tanto per non ingenerare confusione, l'etichetta Secretly Canadian continua ad attribuire l'album a Songs: Ohia per una sorta di continuità artistica, benché in tutto l'artwork dell'album non vi sia traccia del vecchio moniker e anzi sia dal suo stesso autore attribuito alla nuova formazione, che da esso trae il proprio nome.
Comunque, prescindendo da tali questioni formali, The Magnolia Electric Co., prodotto da Steve Albini, riavvicina ulteriormente Molina alle radici blues e country della canzone americana, questa volta in maniera molto più aspra e diretta rispetto agli album precedenti. Comunque la si voglia chiamare, Magnolia Electric Co. è innanzitutto una vera e propria band composta dai musicisti che lo avevano accompagnato nel tour nel corso del quale è stato registrato Mi Sei Apparso Come Un Fantasma; a essi si aggiungono, per l'occasione, altri collaboratori come la cantautrice inglese Scout Niblett, la cui interpretazione, al tempo stesso dolce e obliquamente vibrante, impreziosisce "Peoria Lunch Box Blues", uno dei brani più intensi e meglio riusciti del lavoro.
Che The Magnolia Electric Co. sia un album molto diverso dai suoi predecessori lo si capisce fin dal primo giro di chitarra elettrica del brano di apertura "Farewell Transmission", dal quale già traspare un'adrenalina elettrica e blues mai così esplicita nella carriera del cantautore di Lorain. L'intero lavoro non smentisce per nulla l'impressione del primo brano: The Magnolia Electric Co. si può facilmente considerare l'interpretazione da parte di Molina del blues delle origini, attraverso i suoi vari registri espressivi. Così, le aspre chitarre di "I've Been Riding With The Ghost" rimandano in maniera esplicita a Neil Young, "Just Be Simple" segue le orme di un classico cantautorato che riporta facilmente alla mente le ballate di Bob Dylan, mentre "The Old Black Hen" proietta la band su atmosfere di classico blues delle origini, molto più prossime alla tradizione nera americana che al songwriting dei cantautori dell'ultimo decennio. Va tuttavia sottolineato come in tutto ciò Molina lasci sempre la sua impronta, non accontentandosi di condurre a termine un semplice "tributo", perché in brani come "John Henry Split My Heart" e l'ottima "Almost Was Good Enough" viene riversata quella carica emotiva a stento repressa nelle composizioni compassate dei precedenti lavori. Nonostante ciò, l'attitudine alla lentezza e all'essenzialità acustica non è sparita, come dimostra il bonus-cd incluso solo nelle prime copie del lavoro, nel quale sono raccolte le registrazioni casalinghe dei brani dell'album, interpretati da Molina con il solo ausilio di una chitarra: sono versioni di un'essenzialità estrema, che riconciliano con il miglior approccio intimista dell'autore e, in quasi tutti i casi, finiscono per valorizzare canzoni la cui ispirata scrittura risulta forse un po' sacrificata nel contesto elettrico dell'album ufficiale.
Preso di per sé, The Magnolia Electric Co. è comunque un buon disco, non privo di qualche intuizione e ascrivibile a una delle tante derive musicali di Molina, anche se, alla luce delle produzioni successive, potrà considerarsi come la prima avvisaglia della sua involuzione elettrica e nostalgica.

Prima di indossare definitivamente i panni del bluesman, tuttavia, Molina riesce ancora a valorizzare la sua sensibilità e il suo talento nella scrittura di brani scarni, semplici, ma capaci di parlare al cuore. Sulla scia delle versioni acustiche dei brani di The Magnolia Electric Co., l'ex Songs: Ohia pubblica l'album nel frattempo concepito per costituire col precedente un vero e proprio dittico, Pyramid Electric Co. , quasi divertendosi a spiazzare ancora una volta i suoi fedeli ammiratori, a partire dall'inedito formato del lavoro, vinile con accluso cd dall'identico contenuto. Pyramid Electric Co. è lontano anni luce dall'energia elettrica del suo immediato predecessore, registrato com'è in perfetta solitudine, con il solo ausilio di una chitarra e di un pianoforte, entrambi suonati in prima persona, così come in prima persona Jason Molina si attribuisce la responsabilità del lavoro: è infatti l'unico album della sua carriera a uscire semplicemente sotto il suo nome e cognome, e i sette brani in esso contenuti ne chiariscono subito il perché. Sono infatti un essenziale affresco della sofferenza alla base dell'ispirazione musicale di Molina, nella quale all'intimismo compositivo degno del miglior Oldham si affianca un habitus sonoro scarno e dilatato, i cui toni foschi esprimono senza mediazioni né facili autoindulgenze uno spirito malinconico e a tratti disperato, sempre latente al di là delle recenti sbornie elettriche e in definitiva molto più compiutamente trasmesso in questi brani.
Pyramid Electric Co. è un album coraggioso, difficile, che mostra le straordinarie capacità e anche i limiti del suo autore, toccando però straordinari picchi di intensità emotiva, attraverso le note lentamente distillate dall'alternanza tra chitarra acustica ed elettrica nelle varie "Division St. Girl", "Spectral Alphabet" o dall'evocativo pianoforte di "Red Comet Dust".

Ma la svolta elettrica di The Magnolia Electric Co. è decisa e, almeno per il momento, senza ritorno: costituita stabilmente, la nuova band cementa il proprio suono nel tour successivo, nel corso del quale Molina non concede alcuno spazio alle sue sofferte acusticità, ma, insieme ai suoi compagni di viaggio, predilige esibirsi in piccoli e grandi tempi del blues, offrendo spettacoli dal sapore antico e dall'impatto sonoro irruente, interpretando secondo la nuova (o vecchia?) sensibilità i pochi brani della produzione precedente che si prestano a tale operazione, e soprattutto provando dal vivo il futuro repertorio della band.
Proprio nel corso del tour viene registrato Trials & Errors, non un semplice album dal vivo, ma l'esplicita testimonianza del drastico cambio di registro impresso da Molina alla sua carriera. Del repertorio di Songs: Ohia sono qui riproposti soltanto tre brani, in versioni pesantemente elettrificate, mentre le restanti sette tracce sono composizioni nuove, alcune delle quali destinate a restare edite soltanto in questa forma live.
La svolta, ancor più netta che in The Magnolia Electric Co., è evidente fin dai primi due brani, "Dark Don't Hide It" e "Don't This Look Like The Dark", che tentano di conciliare ballate di stampo dylaniano con un tradizionale approccio blues, integrato da una chiarissima e sin troppo marcata ispirazione a Neil Young. Anche la voce di Molina, nonostante nei testi permangano gli abituali temi oscuri, abbandona gli abituali toni sommessi e sofferti per trasformarsi in quella decisa del bluesman, obbligato a sostenere l'impatto sonoro di chitarre abrasive e di una ritmica incalzante.
La durata dei brani (sempre superiore ai cinque minuti) contribuisce ad appesantirne l'ascolto, disperdendo gran parte del lirismo espressivo e delle capacità compositive di Molina, come risulta evidente proprio nelle reinterpretazioni dei brani già editi da Songs: Ohia. Ma quei tempi sono ormai soltanto un lontano ricordo: Magnolia Electric Co. è nulla più di una classica big band, che si limita all'esercizio delle indubbie capacità tecniche dei suoi componenti su sentieri già fin troppo battuti, piuttosto che nella creazione di qualcosa di autenticamente personale. Non a caso, gli unici eccedenti una mediocrità emulativa sono i due brani nei quali si affaccia, quale solo elemento di originalità, la tromba di Mike Kapinus: "Leave The City" e "The Last 3 Human Words", autentica gemma nel deserto, nella quale l'accresciuta tensione compositiva riesce a conciliarsi in maniera equilibrata con un più lento e articolato incedere drammatico, capace di toccare livelli di pathos mai nemmeno sfiorati dal resto del lavoro e tuttavia ben distanti dalle vette di The Lioness, ma anche dalle più recenti e sofferte introspezioni di Pyramid Electric Co..

Le speranze che Trials & Errors restasse soltanto un episodio, una sorta di divertissement elettrico dal vivo, sono poi ampiamente deluse dal successivo lavoro in studio What Comes After The Blues, nel quale la band persevera sulla discutibile strada intrapresa, presentando otto brani prevedibili, nei quali non si intravede nemmeno più la personalità e la tormentata sensibilità musicale di Molina, ormai finita in un anonimato composito che ha sostituito l'arida oscurità degli ispirati lavori di Songs: Ohia con un opprimente susseguirsi di chitarre sferraglianti, ritmiche marcate e inutili virtuosismi.

Ma proprio quando il talento di Jason Molina sembrava essere misteriosamente evaporato, Magnolia Electric Co. chiudono il loro nerissimo 2005 (anno nel quale sono stati pubblicati entrambi gli ultimi album) con almeno un piccolo barlume di speranza per le uscite a venire, rappresentato dai circa venti minuti dell'Ep Hard To Love A Man, quattro brani oltre alla title track, già edita in What Comes After The Blues, del quale costituiva peraltro l'episodio riuscito meno peggio. Nell'Ep, la band rallenta finalmente i ritmi troppo incalzanti degli ultimi lavori, costruendo con cura un folk-rock dal sapore antico e ancora con qualche cedimento nostalgico, come dimostra la cover di Warren Zevon "Warewolves Of London", ma tutto sommato più pacato rispetto agli album precedenti e non privo di qualche malinconica eco dei tempi di Axxess & Ace, come nelle ottime aperture melodiche, guidate dal piano, di "Bowery".
Certo, in tempi di magra assoluta anche un Ep tutto sommato mediocre può essere salutato positivamente, poiché tende a riportare Molina in territori musicali più congeniali alla sua vena poetica, nei quali il suo talento artistico è senza dubbio libero di muoversi con agilità, come già dimostrato tante volte nei repentini cambi di direzione impressi alla sua carriera: una volta toccato il fondo, si può soltanto risalire, ma la via del ritorno, per quanto lunga e non agevole, sembra già intrapresa. Se allora il pathos emozionale e la voglia di mettersi in discussione non lo hanno del tutto abbandonato, è ancora lecito attendersi da Molina l'auspicabile smentita nei confronti di quanti lo hanno forse troppo frettolosamente relegato tra gli incalliti e polverosi nostalgici di una musica ormai superata.

Dopo la sbornia elettrica, Molina smette i panni del bluesman per rifugiarsi di nuovo in un personalissimo isolamento artistico e dar forma, con il solo ausilio di chitarra e pianoforte, a Let Me Go Let Me Go Let Me Go (2006): nove tracce profondamente sentite, di nuovo capaci di far emergere le sue toccanti doti di autore e interprete.
L'accento posto sul formato vinile e sulla qualità casalinga delle registrazioni non rappresenta una scelta meramente estetica, ma un elemento utilizzato da Molina per conferire ulteriore dilatazione a sonorità scarne e ai pochi accordi che accompagnano la sua voce. L'intimismo crepuscolare che ammanta tutto il lavoro si evince con facilità fin dalle poche note di pianoforte e dai soffusi tocchi acustici che in "It's Easier Now" fanno da contorno alla voce di Molina, qui al massimo dell'espressività della sua invariabile malinconia. Ma, a differenza di "Pyramid Electric Co.", uniformemente caratterizzato da ballate catatoniche, "Let Me Go Let Me Go Let Me Go" presenta una maggiore varietà, quantomeno di strutture: il suono della chitarra non si limita solo a poche note sparse, ma si presenta a tratti arrotondato, disegnando armonie appena più delineate.
Nonostante quasi tutte le composizioni siano ancora ridotte all'osso, la vera novità di quest'album - almeno per il Molina "solista" - consiste nella maggior attenzione per il ritmo, conferito semplicemente dalla voce, prima ancora che dagli accordi ("Everything Should Try Again"), oppure da un breve assolo di chitarra dissonante e decisamente sopra le righe di un brano altrimenti oscuro come "Some Things Never Try".
Discorso a parte meritano i tre pezzi conclusivi, nei quali l'accentuato ma sempre lento movimento compositivo si trasforma nell'aspra e indolente iterazione di un beat campionato, appena compensato da qualche tocco di chitarra ("Get Out Get Out Get Out") o da poche sghembe note di pianoforte e organo ("It Costs You Nothing"), sulle quali Molina torna quasi a gridare la sua disperazione, conseguendo un risultato di grande fascino e intensità emotiva.

Quasi in contemporanea con l'uscita di Let Me Go Let Me Go Let Me Go, Molina si ripresenta anche nella sua incarnazione elettrica, con i Magnolia Electric Co. Tuttavia, benché l'album vada collocato nel percorso artistico della band, la centralità in esso della figura di Molina, unita ad alcuni tratti comuni nell'ispirazione, induce a considerare i due lavori quasi "gemelli".
Fading Trails è un lavoro agile (nove brani dalla durata complessiva inferiore alla mezz'ora), dai ritrovati toni moderati ma intensi e soprattutto privo delle ridondanti asperità dei predecenti lavori della band. Ma non tutto è cambiato, poiché anche qui permane immutata la naturale tendenza al palese recupero di un blues elettrico dal sapore antico, posto però finalmente al servizio delle ben note doti cantautorali di Molina, il cui profondo lirismo torna a esercitarsi in composizioni più scarne e lineari, dai contorni appena disegnati ad opera di una componente strumentale sempre molto "classica" ma stavolta per nulla invadente.
Due terzi del lavoro possono infatti ben a ragione essere considerati composti dalle abituali ballate di Molina - non poi così distanti da quelle degli ultimi album a nome Songs: Ohia - con la voce riportata in primo piano e strutture armoniche mutevoli, contrassegnate da un approccio blues discreto e delicato, spesso contrappuntato dal pianoforte, come nella corale miniatura (cento secondi) elettrica "Montgomery". La forma blues permane inalterata, ma il ritmo rallenta ancora e i toni risultano ulteriormente smorzati, segnando in maniera netta l'inversione di rotta rispetto alle recenti asprezze, nonostante la sostanziale identità di paradigma espressivo.
La radicale discontinuità con gli album precedenti è però ancor più evidentè nei tre brani in cui la band addirittura scompare, per lasciare il palcoscenico al solo Jason Molina, prima in "The Old Horizon", oscura gemma di intimo raccoglimento, incentrata solo sull'intensità della sua voce e su poche, compassate note di pianoforte, e poi in due minimali ballate di chitarra e voce, dalle strutture appena più articolate rispetto a quelle delle scheletriche composizioni comprese in Let Me Go Let Me Go Let Me Go.

Pur senza raggiungere livelli eccelsi, Fading Trails ha almeno il pregio di restituire Molina, anche affiancato dalla band, a una coerenza artistica che pure nel corso della sua carriera si è misurata con diverse forme musicali e che qui riesce finalmente a giocare col blues, senza snaturare i caratteri delle sue collaudate qualità cantautorali. Lo stesso risultato viene conseguito dalla maxi-raccolta di quattro cd e un dvd dal titolo Sojourner, che segue a distanza di un anno gli ultimi due album "gemelli", compendiando in un unico box quattro diverse session relative a brani editi o meno, registrate da Molina in solitario o con l'ausilio di musicisti diversi.
Due dei quattro cd, "Nashville Moon" e "Sun Session"  presentano di nuovo il lato più elettrico e bluesy (e meno convincente) della band, così come espresso in Trials & Errors e What Comes After The Blues, alcuni brani dei quali vengono presentati in una forma leggermente più scarna, che ne disvela il lato melodico, soffocato in quelle opere sotto un’urticante coltre elettrica. L’impostazione di base permane tuttavia profondamente influenzata da fascinazioni di quel classicissimo folk-blues, nel quale il lirismo di Molina ha già dimostrato di non riuscire a esprimersi al meglio, qui appena temperato da una certa maggior ponderazione nell’approccio strumentale. E non è un caso che i brani migliori continuino a dimostrarsi quelli tratti da “Fading Trails” e dall’Ep “Hard To Love A Man”, oltre agli inediti “Texas 71” e “Down The Wrong Road Both Ways”. È tuttavia evidente, anche in questi brani, come Molina tenda a rallentare i ritmi e a sfrondare le composizioni da gran parte delle sovrastrutture elettriche delle versioni originali, come dimostra perfettamente la versione di “Hold On Magnolia”, quasi a metà tra quella dell’album The Magnolia Electric Co. e quella acustica, eseguita dal solo Molina nel bonus-cd compreso nello stesso disco.

Gli altri due cd compresi in Sojourner travalicano invece quanto fin qui già dimostrato dalla band: in “The Black Ram” (per la cui realizzazione Molina si è fatto affiancare da una formazione interamente trasformata, comprendente, tra gli altri, Andrew Bird e Rick Alverson), non solo la maggior parte dei brani è inedita, ma l’apporto dei collaboratori di turno conferisce un aspetto più compassato e ambientazioni ovattate a composizioni nelle quali riesce a risplendere il sofferto intimismo del cantautore di Lorain. Non che Molina rinunci a ritmiche asciutte e spigolosità elettriche, ma esse sono adesso finalizzate alla creazione di atmosfere dolenti, nonché temperate dalle gentili trame acustiche di Andrew Bird in brani quali le splendide “What's Broken Becomes Better” e “Will-O-The-Wisp”.
L'ultimo cd, “Shohola”, ripresenta poi Molina in completa solitudine, alle prese con la sola essenzialità di voce e chitarra in una session di appena venticinque minuti, che trae le mosse da dove si era fermato Fading Trails, ovvero dalle due minimali ballate "Steady Now" e "Spanish Moon Fall & Rise", alle quali seguono altri sei brani, bozzetti acustici scarni ma perfettamente compiuti, nei quali l’abituale spleen di Molina si esterna in maniera meno cupa rispetto agli altri suoi album "solisti".
Per quanto per "Shohola" valga un discorso a parte rispetto al resto di Sojourner, è proprio in esso e in “The Black Ram” che possono ravvisarsi le note più significative di questa raccolta, non mera summa degli ultimi tre anni del percorso artistico di Jason Molina, ma testimonianza del suo impegno nel recupero di una classicità folk-blues che, una volta smussate le asprezze delle prime opere di Magnolia Electric Co., torna ad abbracciare la schiettezza del suo songwriting, vieppiù enfatizzata da brani di dimessa essenzialità, in chiave tanto acustica quanto elettrica.

L’ennesimo tassello della lunga carriera di Jason Molina coincide con il quinto lavoro sotto la denominazione di Magnolia Electric Co. e segna il suo ritorno dopo tre anni alla forma dell’album.
Josephine, ideato come concept sulla solitudine e la disperazione del desiderio, è fortemente segnato dalla dedica al bassista Evan Farrell, già impegnato con i Rogue Wave nonché membro effettivo della band nei suoi ultimi tour, tragicamente scomparso nel dicembre del 2007.
Il forte legame stabilito con l’ispirazione sottesa all’album, unito al mood al solito ombroso di Molina, connotano Josephine ben più della produzione, che torna ad essere affidata a Steve Albini, il cui influsso è tuttavia scarsamente percepibile, sovrastato com’è dall’animo dolente del cantautore di Lorain e dalla sua ormai consolidata propensione per il classicismo espressivo.
L’impianto dei ben quattordici brani dell’album tende a bilanciare lo spirito nuovo/antico di Molina con il piglio inconfondibile della sua voce e di una scrittura che mostra ancora tratti personali in un sentito lirismo romantico. Quando è quest’ultimo a prendere il sopravvento, Molina riesce ancora a catturare l’ascolto con ballate dalle quali traspare una spiccata sensibilità tanto umana quanto artistica: è il caso delle ottime “Shenandoah” e “Map Of The Falling Sky”.

Si tratta, tuttavia, solo di episodi isolati, poiché nella restante parte di un lavoro forse troppo prolisso, prende il sopravvento un polveroso country-blues le cui sembianze elettriche risultano pur diluite da melodie limpide, ritmiche pacate e impreziosite da florilegi di fiati (l’iniziale “O! Grace”) e organi dal sapore antico (“Little Sad Eyes”). Se infatti la profonda nostalgia della title track (“don’t let the final word be the tears in your eyes”) permane sui binari di un personale omaggio alla musica delle origini, al pari delle più torbide atmosfere di “Knoxville Girl”, anche in Josephine residuano alcuni episodi nei quali Molina si fa prendere la mano da calligrafiche interpretazioni di un immaginario – prima ancora che di un suono – parzialmente appiattito su cliché alt-country (“Song For Willie”, “Whip-Poor-Will”).
Josephine conferma tanto l’attitudine recente di Molina a indossare le vesti del “cowboy con la chitarra”, quanto il progressivo smussamento degli iniziali eccessi elettrici di Magnolia Electric Co. in favore di un apprezzabile, seppur saltuario, ritorno a contesti nei quali possano esprimersi in maniera più compiuta la sua abilità di scrittura e la sua raffinata empatia interpretativa.

A breve distanza dalla pubblicazione di Josephine, vede la luce il frutto di un nuovo progetto collaborativo, che perpetua l'antica attitudine del cantautore dell'Ohio, riposta nel cassetto dopo i tempi gloriosi di The Lioness e Ghost Tropic. Il partner artistico di Molina stavolta è Will Johnson (Centro-Matic, South San Gabriel) e l'esperimento che porta semplicemente nome e titolo di Molina And Johnson trae origine de un incontro casuale e da dieci giorni trascorsi insieme dai due artisti all'inizio del 2008 e impiegati a scrivere e registrare musica in una condizione di quasi completo isolamento.

Le quattordici morbide ballate risultanti dalla collaborazione segnano un proficuo bilanciamento tra la ritrovata propensione di Molina a composizioni scarne e sofferte e l'accuratezza di Johnson nell'intessere melodie più morbide e composite. In maniera analoga, nel corso dei brani i due si alternano anche alla voce, colorando i loro misurati accenti bluesy ora dei toni dolenti tanto congeniali a Molina, ora (e più spesso) alla levità non per questo meno malinconica dell'artista texano. E benché alcuni pezzi rimandino con decisione al mood e al lirismo che hanno contrassegnato tutta la produzione di Molina (su tutte "Each Star Marks A Day" e la tenebrosa "For As Long As It Will Matter"), le cadenze rallentate e le fascinazioni musicali e narrative - volte a catturare le immagini di un'America desolata e quasi irreale - scolorano più spesso in una sorta di trasognato isolazionismo cantautorale che non nella sferragliante nostalgia di Magnolia Electric Co. o in prevedibili registri alt-country.
Le modalità di scrittura e il contesto di realizzazione prescelto dai due artisti hanno senz'altro contribuito ad accentuarne i caratteri più essenziali e desertici, ovvero quelli necessari per far rifulgere a meglio il talento e la stessa voce di Molina, da ormai troppo tempo sovrastata dal fragore elettrico delle ultime prove (anche dal vivo) con la band al completo.

Jason Molina muore nella notte del 16 marzo 2013. Secondo quando riferito da Chunklet.com, causa del decesso sarebbe il ripetuto abuso di alcol, problema che dal 2009 lo aveva tenuto lontano dalle scene. Molina, che non aveva assicurazione sanitaria - indispensabile, negli Stati Uniti, per essere presi in cura da una qualsiasi struttura ospedaliera - dopo alcuni anni passati nel tentativo di disintossicarsi presso centri specializzati, viveva in una comunità rurale di recupero in West Virginia.

A distanza di sette anni dalla morte di Jason Molina vengono pubblicate le ultime registrazioni dell'artista, un album concepito durante i giorni della malattia che lo ha trascinato via dal mondo senziente, autentico e viscerale come qualsiasi altra cosa prodotta dal musicista. Inquietudine e malinconia fanno ancora da sfondo a ballate dolenti, a volte armonicamente destrutturate, distese all’infinito, immerse in aspre e drammatiche liturgie sonore e vocali che non conoscono la vacuità del superfluo.
Antidivo per eccellenza, Jason Molina non ha mai abusato della propria sensibilità per sedurre l’ascoltatore con qualcosa che non avesse tutti i connotati dell’autenticità e della poesia, ed è proprio nella natura spoglia ed incompleta di queste nove canzoni che risiede il profondo fascino di Eight Gates.

Fugace, sfuggente l’album non mette a tacere i dubbi sulla sanità mentale del musicista, né tantomeno svela tutti i segreti di una poetica incline ad una mesta malinconia e ad una auto indulgente drammaticità, che nonostante tutto risulta spesso empatica (“Be Told The Truth”). Affascinanti incompiute (“She Says”) si alternano ad ammalianti e corpose ballate folk-blues dai tratti noir (“Shadow Answers The Wall”), senza mai rivelare fino in fondo le ragioni di quella forza auto distruttrice che a soli trentanove anni ne causò la morte per complicazioni legate all’alcolismo.
Alfine brani dall’intenso misticismo come “Old Worry”, “Whisper Away” e “The Crossroad + The Emptiness” restituiscono un profilo di Jason Molina quasi ordinario, demoni e tribolazioni sembrano per un attimo restare fuori dalla finestra di questo spaccato sonoro, che non ha come scopo quello di rafforzarne il mito, quanto di confermarne l’autenticità artistica, ma anche di ricordarci quanto ancora poteva regalare a noi mortali.  

Contributi di Gianfranco Marmoro ("Eight Gates")