Pulp

Pulp

Una classe differente

Dal lungo percorso sottotraccia all'inaspettata (e quasi accidentale) stardom nell'era del britpop: la strana storia dei Pulp da Sheffield. Una band che della naturale predisposizione all'anacronismo ha fatto quasi un vanto, ma che ha saputo risorgere e reinventarsi di continuo, grazie soprattutto al talento del suo istrionico leader, Jarvis Cocker, dandy fuori tempo massimo dal piglio vezzoso e impertinente. Fino alla crisi e alla corsa solitaria

di Francesco Giordani

Forse qualcuno si sorprenderà nel sapere che una delle band britanniche più longeve e coriacee degli ultimi venticinque anni siano i Pulp. Ufficialmente attivi (come in seguito vedremo) sin dal 1980 (ma a dire il vero il prode Cocker, leader del gruppo, aveva cominciato giovanissimo a strimpellare e assemblare piccole incisioni domestiche già nel 1978!), non si sono mai, almeno ufficialmente, sciolti, dimostrando nel lunghissimo arco della loro carriera una rarissima quanto decisiva capacità di risorgere e reinventarsi di continuo. Al punto da conoscere nel biennio 1994-1995 (dopo ben quindici anni di frustrante anonimato) un successo di dimensioni continentali, proprio in coincidenza con l’esplosione mediatica del fenomeno britpop, al quale i Pulp finiscono con l’appartenere quasi accidentalmente, essendo per certi aspetti quasi "coetanei" di U2 e Rem.

I Pulp si formano e muovono i primi passi a Sheffield, e proprio il retroterra artistico della "città dell'acciaio" fornisce gli elementi musicali più caratterizzanti che permettono di inquadrare nel modo criticamente più adeguato il suono dei Pulp, un synth-pop che si affaccia nella sua completa maturità sulle soglie degli anni Novanta, forte della lezione di fondamentali concittadini come Human League, Comsat Angels, Cabaret Voltaire, Heaven 17, Vice Versa (e loro susseguente evoluzione Abc). A questa piccola ma nutrita galassia (di cui i Pulp rappresentano, a loro modo, una naturale evoluzione), vanno poi aggiunte le altrettanto decisive influenze esercitate da importanti protagonisti del pop anni Ottanta come Soft Cell, Tears For Fears, Roxy Music, Style Council, Devo, Duran Duran, Modern English, Visage, il Bowie gaudente di "Let's Dance" e immediati dintorni.

Ma procediamo con ordine. Come detto tutto ha inizio a Sheffield per iniziativa di Jarvis Cocker, uno spilungone anoressico e occhialuto innamorato di Serge Gainsbourg e Scott Walker, localizzabile in quell'improbabile punto in cui Mick Jagger, Woody Allen, Oscar Wilde e Adriano Celentano riescono per qualche esile istante a coincidere e, forse, a incontrarsi (con tutte le nefaste ed esilaranti conseguenze che da ciò possono derivare...).
Il nome scelto per iniziare è Arabicus Pulp, subito contratto nel più maneggevole e felice Pulp, e del collettivo fanno parte anche Philip Thompson e Jimmy Sellars, ai quali presto si aggiungeranno il fondamentale Russel Senior (che aveva recensito un gig dei Pulp su una fanzine), Jamie Pinback e Wayne Furniss (rispettivamente chitarra e violino, basso e batteria). Nel 1980 appaiono in una compilation che raccoglie band del South Yokshire, intitolata "Bouquet Of Steele", e sempre nello stesso anno arriva il primo concerto al Rotherdam Arts Centre, al quale segue nel 1981 la pubblicazione di un piccolo demo che finisce nelle mani delle vecchia volpe John Peel, il quale - a riprova del suo infallibile fiuto - invita il gruppo a Londra per una session (questo preziosissimo e toccante documento è da poco tornato disponibile grazie alla recente pubblicazione delle John Peel Sessions dei Pulp da parte della Island).

Il nome dei Pulp comincia a circolare nei circuiti di musica alternativa e un pezzo del gruppo, "What Do You Say" finisce nel 1982 nella raccolta "Your Secret's Safe With Us". Nel frattempo arriva un contratto con la Red Rhino che nell'aprile del 1983 pubblica il primo album a nome Pulp, It, che passa completamente inosservato e che dovrà attendere il 1994 e un rinnovato clima culturale per ottenere una necessaria ristampa che ne attesti in qualche modo l'esistenza. Sono due le cose che sorprendono riascoltando le otto canzoni di questo stranissimo esordio. La prima è che le composizioni sono tutt'altro che innocue o acerbe come si potrebbe ragionevolmente supporre (tutti i componenti del gruppo erano del resto giovanissimi all'epoca delle registrazioni). La seconda è che questo It contiene in embrione tutto o gran parte del percorso artistico che di lì a pochi anni avrebbe caratterizzato la vicenda dei Pulp, e il suo ascolto (anche fugace) è di conseguenza altamente consigliato. L'inizio è affidato al canto nitido e nostalgico di alcuni gabbiani, cui segue la coppia "My Lighthouse", "Wishful Thinking" che a un melodismo zuccheroso intriso di reminescenze beatlesiane, sovrappone il gracidare lento e regolare di benevole chitarre byrdsiane, seguite a ruota da cori estatici e flauti che rimandano quasi a certe suggestioni paesaggistiche in stile Fairport Convention o Pentangle.
A stupire è soprattutto la voce di Cocker, già perfettamente formata e riconoscibile, incredibilmente intensa e vicina a quella del miglior Robert Smith. Un po' più melensa "Jocking Aside", che non si discosta poi molto dalle precedenti, forte di un cadenza orgogliosamente vittoriana, mentre volendo ci si potrebbe perdere nei fiori colorati e odorosi di "Boats And Trains", sottile e inessenziale come una logorata carta da parati dal disegno ipnotico e regolare. "Blue Girls" prosegue in questo indolente e screpolato seminario della gioventù, accarezzata da refoli sottili di flauto e note quasi farfugliate di pianoforte, che si disperdono nell'aria come foglie secche, mentre sullo sfondo un chiacchiericcio di scolaresche femminili si avvicina e si allontana al ritmo di una risacca, prima di un colpo di pistola letterario e decadente, alla fine del pezzo. "Love Love" è anonima come la domenica al Luna Park che cerca di raccontare con il suo clarinetto e i suoi ottoni, "In Many Ways" ha davvero il suono di un'adolescenza persa per sempre, così come la successiva "Looking For Life", che adagia sul suo organo antico e addormentato un altro piccolo santuario provinciale alle gioie perdute della pubertà. Si chiude così l'ascolto di questo disco, che lascia come il sospetto che, se supportati da una maggiore attenzione promozionale e da un po' di prosaica fortuna, i Pulp sarebbero potuti diventare gli Smiths prima degli Smiths (i quali tra l'altro pubblicarono il loro disco d'esordio proprio in quell'anno). 

La line-up del gruppo è in questo periodo estremamente instabile, e numerose sono le defezioni così come i nuovi ingressi, tra i quali va ricordato quello decisivo della tastierista Candida Doyle, amica del chitarrista Russel Senior e sorella di Magnus Doyle (per un periodo batterista del gruppo), che prelude alla firma per la Fire Records la quale pubblica nel maggio 1987 il secondo album Freaks, preceduto nel gennaio dello stesso anno dal singolo "They Suffocate At Night", entrambi presto dimenticati. Durante le registrazioni di questo controverso disco, nell'estate del 1986, un Cocker sempre più frustrato e disilluso dal persistente insuccesso precipita da una finestra (a quanto pare durante il corteggiamento di una ragazza) e rimane bloccato per un lungo periodo su una sedia a rotelle.

Il secondo disco dei Pulp assume da subito un tono più teatrale e art-rock rispetto al suo diafano predecessore, e finisce col rivelarsi troppo pretenzioso e smaccatamente autoindulgente. Lo stesso Cocker a distanza di anni si riferirà a questo disco in termini estremamente severi, affermando che probabilmente si meritò la totale indifferenza e impopolarità di cui godette. "Fairground" mescola teatro d'avanguardia a un grassa risata grandguignolesca e marinettiana, e sembra un rimasuglio inutilizzato di qualche allucinazione zappiana. La successiva "I Want You" si affida invece a un crooning intimo e confidenziale, e sboccia in un ritornello di soul levigato e molle che rimanda alle atmosfere più raccolte di It, in bilico tra Marvin Gaye e George Harrison. "Being Followed Home" ribadisce la generale tendenza di questo disco a costruire dettagliate e mutevoli geografie sonore sulle quali va a poi a snodarsi a volo d'uccello la narrazione perentoria e distaccata di Cocker, conducendo però le canzoni a un'eccessiva frammentazione, in un cerimoniale solenne e meccanicamente strutturato, che fa quasi pensare in certi frangenti ai Fall, come dimostra la successiva "Master Of The Universe", secondo imbarazzante singolo estratto.
"Life Must Be So Wonderful" cerca faticosamente di riguadagnare qualche posizione, ma ripiomba di nuovo nelle penombre vischiose di un soliloquio piatto e rimuginante. Migliore sorte arride alla successiva "There's No Emotion", ma anche qui è fortissima la tentazione di mettersi di fronte allo specchio appannato della propria solitudine e recitare la parte di Sinatra o dell'Elvis abulico e ciondolante di fine carriera. Cocker traspone in una grana musicale volutamente arida e pervasa da un pallore a dir poco cadaverico uno dei periodi meno ispirati e speranzosi di tutta la sua esistenza.
La fantasmatica "Anorexic Beauty" praticamente non esiste e rasenta, nella sua scheletrica povertà d'inventiva, l'autolesionismo. Stesso dicasi per il clamore orchestrale di "The Never Ending Story", in cui Cocker si autoincorona re del proprio niente, con ghigno perverso e una feroce vocazione alla farsa grottesca. "Don't You Know" è un altro innocuo soprammobile pop, poco ingombrante e assolutamente invisibile, così come la finale "They Suffocate At Night", che si intrattiene su una blanda e intorpidita melodia adatta a un film francese intriso di insulso sentimentalismo, giusto mentre l'Impero capitola e si frantuma in mille pezzi. 

Al disco segue un sfortunata tournée in giro per l'Inghilterra, caratterizzata da proiezioni di filmati, danze e spettacoli di varia natura, vagamente ispirati all'Exploding Plastic Inevitabile di Warhol e compagni e ai readings dei Fugs. Cocker si trasferisce a Londra per studiare cinema, e proprio nella capitale avviene l'incontro con il bassista Steve Mackey, che insieme al batterista Nick Banks (sopraggiunto poco prima) dà un assetto stabile all'organico, al fianco dei già citati Russel Senior e Candida Doyle, regalando al progetto Pulp nuovi stimoli e preziosa linfa vitale.

Il nuovo disco, Separations, è già pronto da diverso tempo, ma la Fire ne ritarda l'uscita di quasi due anni e si limita a dare alle stampe il singolo "My Legendary Girlfriend" nel settembre del 1990 (single of the week per l'Nme, riedito poi nel 1992), seguito nell'agosto del 1991 da "Countdown", in coincidenza con la partecipazione dei Pulp a un festival organizzato da Les Inrockuptibles in Francia.
Separations alla fine riesce a vedere la luce nel luglio 1992, ma i Pulp hanno ormai interrotto i rapporti con la vecchia etichetta e ne fondano una propria, la Gift, che pubblicherà, oltre al brano inaugurale "O.U. (Gone Gone)", due singoli che inizieranno a calamitare l'attenzione pubblica attorno alla musica dei Nostri: "Babies" (ottobre '92, poi inclusa nel successivo His 'n' Hers, grazie al quale conoscerà grande notorietà) e "Razzmatazz" (del febbraio '93). 

Con Separations i Pulp iniziano a stabilizzare il proprio stile in quel synth-pop fischiettante e scanzonato, a metà strada tra Pet Shop Boys e ABBA, che diverrà nella produzione a venire una cifra fortemente caratterizzante, inserendosi così in quel fitto reticolo di fondamentali influenze di cui si è detto nelle considerazioni introduttive. Ciò non toglie che Separations rimanga un'opera essenzialmente di transizione, una sorta di disordinato e brulicante laboratorio o incubatrice in cui i Pulp affinano i propri strumenti e la propria scrittura, iniziando a elaborare i primi faticosi abbozzi di una poetica finalmente originale.
Si va dagli sbuffi pop del trenino "Love Is Blind", tra Human League e Abc, confermati dalla successiva "Don't You Want Any More", incardinata su un dialogo a distanza tra tastiere intermittenti e un violino flessuoso, per arrivare ai tramonti hollywoodiani della spossata "She's Dead" e al violino frenetico (suonato da Russel Senior) di "Separations", dalla costruzione più cinematografica, che dopo un'ouverture vaporosamente orchestrale, si schiude in un samba sintetico sbilenco e balbettante. Il pezzo è interessante, pur nella sua mediocrità, in quanto anticipa un certo interesse per il melodramma e il musical (già in parte, come visto, presente in Freaks), che giocherà un ruolo centrale nella produzione più tarda dei Pulp, soprattutto nel disco This Is Hardcore.
Per il resto l'impressione generale è quella di un carteggio privato con il pop anni Ottanta, che esplora tutte le possibilità espressive e le vicissitudini formali di quella musica, passando dai Soft Cell agli Psychedelic Furs, in un rapido ripasso di tutte le posizioni e strategie stilistiche possibili, che inanella marcette ballabili e plasticose come "Countdown" (davvero un rigurgito di vecchie carcasse smangiate dal mare magnum degli anni Ottanta) o "My Legendary Girlfriend", altro rudere di elettro-pop sbreccato, costruito artificialmente attraverso un raffinato esercizio di enciclopedico mimetismo (non dobbiamo dimenticare, infatti, che siamo nel 1992, e certe musiche sono ormai diventate da un bel pezzo materiale da museo dei ricordi).

I Pulp costruiscono così il piccolo mausoleo di una dinastia musicale ormai decaduta, denotando un'ingrata ma puntualissima predisposizione naturale all'anacronismo, mancando quasi sempre per un pelo i corsi e decorsi delle mode e dei gusti musicali del pubblico, finendo quasi sempre con l'essere da esso sistematicamente ignorati. Ma nel 1993 succede qualcosa di decisivo. L'omonimo disco di debutto dei Suede fa faville in classifica, smuovendo la stagnante industria musicale inglese e spianando la strada all'ormai prossimo britpop. I Pulp, non si sa come, riescono addirittura a spuntare un contratto con la major Island, suggellato dalla pubblicazione degli ultimi vinili nella raccolta Pulp Intro: The Gift Recordings e dall'uscita del singolo "Lipgloss", primo vero e proprio capolavoro della band (al fianco della già citata "Babies"), che fa il suo ingresso nella Top 50 dei singoli più venduti in Inghilterra.

Le cose stanno rapidamente cambiando e i tempi sono maturi per la pubblicazione del nuovo album, His 'n' Hers, che esce nell'aprile 1994, preceduto in marzo dall'irresistibile singolo "Do You Remember The First Time?" (accompagnato da un memorabile cortometraggio), subito seguito in maggio dalla ripubblicazione di "Babies", che circolava già da un paio d'anni. La vecchia etichetta Fire ribatte, cercando di rosicchiare qualcosa al crescente successo della band, con la ristampa di It e la pubblicazione della raccolta di vecchi materiali Master Of The Universe, contribuendo a complicare ulteriormente una discografia già piuttosto intricata e frammentaria. 

A detta di alcuni, His 'n' Hers rappresenta il vertice qualitativo della band di Cocker, ma gran parte dei meriti di quest'opera tendono a essere generalmente offuscati dal successivo, pluripremiato Different Class dell'anno seguente. Sta di fatto che His 'n' Hers rappresenta un momento di svolta fondamentale nella produzione dei Pulp, portando a compimento e definitiva maturazione le istanze estetiche di quel pop calibrato e sintetico che aveva cominciato a muovere i primi timidi passi in Separations. Senza dimenticare l'indiscutibile qualità e fantasia di molte delle composizioni incluse in questo disco, che testimoniano di un momento di grazia irrepetibile nella vena compositiva di Cocker e soci.
Si può cominciare da dove si preferisce: dagli sbalzi d'umore della lunatica "Joyriders", che proietta su un palcoscenico bowiano il romanzo gestuale di una voce che sembra riprodurre nelle sue acrobatiche torsioni i movimenti stilosi e molleggiati di Cocker on stage, così come pure da "She's A Lady", con i suoi falsetti singhiozzanti e il suo teatro di marionette sintetiche edificato su brandelli di Human League destrutturati e piccole orologerie meccaniche targate Ultravox. Per tacere poi della calligrafia ricamata di "Happy Endings", che comprime Serge Gainsbourg e le pagine rosa dei diari di qualche scolaretta di provincia in un bouquet odoroso di pop policromo e primaverile.

Ma il vero e proprio pocker di assi viene calato dal trittico dei singoli: "Babies" è un incrociarsi di traiettorie oblique di chitarra come scie di aerei in un cielo limpido, e il ritornello si riempie i polmoni e lo sguardo di melodie profumate, in una generale atmosfera di esaltazione e apertura sensoriale. "Lipgloss" ha un passo più risoluto, che si spalanca poi su una melodia senza confini, mentre la chitarra arriccia scarabocchi impazziti e Cocker caracolla come un funambolo su una linea vocale sottilissima, lanciando coriandoli di Pet Shop Boys e Style Council in tutte le direzioni. È quasi una resurrezione o una seconda impossibile giovinezza e "Do You Remember The First Time?" non fa che ribadirlo. "Pink Glove" (una delle migliori composizioni dell'album) rasenta quasi il new romantic, con i suoi millimetrici sillogismi di tastiere e i sospiri della voce che si compongono poi in un arazzo melodico di estatica bellezza. Anche "Acrylic Afternoons" ha un disegno equilibrato e srotola il suo tappeto rosso di palpitazioni e amori infranti su giri di synth ben torniti.
Con "Have You Seen Here Lately?" subentra il sospetto che l'intenzione ultima dei Pulp sia quasi quella di incidere sulla corteccia del loro pop sagomato una sorta di "Tempo delle mele" provinciale e operaio, attraverso le pieghe di un romanzo dell'adolescenza eterno e struggente. Si fatica a trovare veri e propri punti deboli, se non forse un'eccessiva sudditanza estetica ai dettami formali del synth-pop, che porta il gruppo a comporre pezzi un po' più sfocati o dondolanti come "Someone Like The Moon" o "David's Last Summer" (comunque passabile). 

Le cose cominciano a girare inaspettatamente bene. In autunno i Pulp supportano i Blur in un tour negli Usa. Ma il botto commerciale vero e proprio arriva nel maggio del 1995, con il debutto del nuovo, storico singolo "Common People" direttamente al numero 2 delle classifiche. All'ultimo momento i Pulp sostituiscono gli Stone Roses come headliner nel festival di Glastonbury e l'esibizione rasenta il trionfo. Il doppio lato A "Mis-Shapes/ Sorted For Es And Wizz" (che scatenerà non poche polemiche - soprattutto da parte del "Daily Mirror" - per i suoi sibillini riferimenti alle droghe) anticipa di un mese, in settembre, l'uscita del nuovo album Different Class, che si insedia subito stabilmente al numero uno delle chart. Bissano il successo anche i singoli seguenti: "Disco 2000" (novembre 1995) e "Something Changed" (marzo 1996). Mark Webber, responsabile del fan club ufficiale dei Pulp, entra a far parte come tastierista e chitarrista in pianta stabile del gruppo, che in ottobre intraprende tour in Scandinavia, Europa e Giappone.
Ma l'evento decisivo è un altro: agli inizi del 1996, Jarvis sale sul palco dei Brit Awards durante un'esibizione di Michael Jackson, mettendosi le mani sulle natiche come un novello Jim Morrison pacchiano e demenziale. Il gesto, al quale segue una brevissima detenzione, ha una vasta eco mediatica e Jarvis Cocker diventa in breve tempo un personaggio estremamente popolare in Gran Bretagna, una sorta di eroe nazionale.

Dopo dieci anni di totale indifferenza, grazie a Different Class i Pulp passano dalle pagine dell'Nme alle enciclopedie della storia del pop albionico (come in fondo avevano sempre voluto) e i loro concerti infiammano arene gremite. Su Different Class non c'è poi molto da dire. Un'opera ormai entrata nell'immaginario pop britannico, quasi quanto il sergente Pepper dei Beatles o la regina morta degli Smiths, destinata a influenzare numerosi gruppi inglesi (ma non solo) negli anni a venire.
Entrando nel merito delle canzoni del disco, bisogna ricordare che esse vengono composte e registrate a ridosso del precedente His 'n' Hers, e tendono così ad allinearsi sugli stessi standard qualitativi, ricadendo sotto lo stesso ombrello di ormai consolidati riferimenti pop.
Quello che Different Class ha forse in più sono fondamentalmente due canzoni irripetibili: "Common People" e "Disco 2000". Due cartoline pop direttamente dal cuore palpitante degli anni Novanta, che solo negli anni Novanta avrebbero potuto essere scritte e che ancor oggi restituiscono tutto il senso di follia creativa, euforia sessuale e irrefrenabile edonismo che pervase quegli anni, quando il sangue di Kurt Cobain era ancora caldo e il rock lentamente moriva per resuscitare preceduto dal prefisso "post", e l'Inghilterra, nonostante tutto questo, sembrava essersi trasformata nella California garage degli anni Sessanta - con la sola differenza che anche il gruppo più insignificante aveva la più che concreta possibilità di diventare famoso e vendere un milione di dischi (senza magari aver ancora scritto un disco, come accadde ai dimenticati Menswear).
"Common People" è come un'enorme palla di neve che comincia a scivolare su superfici sdrucciolevoli di sintetizzatori, diventando a ogni giro più spessa e veloce, incorporando nella sua discesa vorticosa Soft Cell, Human League, Abc, Bowie, per schiantarsi poi sul cemento duro di un'Inghilterra segretamente frustrata e forse già sottilmente disillusa.
"Disco 2000" (che per uno scherzo curioso e maliziosamente divertente del destino ruba il decisivo giro di chitarra a "Gloria" di Umberto Tozzi, ma non ci furono denunce) lancia la trottola impazzita del suo ritornello sulla pista di un glam-pop sciolto e ballabile, mentre Cocker schiocca le pillole colorate dei suoi "Oh Yeah!" come se tra lui e Mick Jagger non ci fosse la minima distanza temporale o sentimentale.
Il resto del disco si accoda sulla stessa lunghezza d'onda e non è mai meno che buono. "Mis-Shapes" sembra una versione pop miniaturizzata di "Heroin" dei Velvet Underground, con la sua pulsazione accelerata che si rovescia in un ritornello ansimante, accarezzato da gelide radiazioni cosmiche. "Pencil Skirt" è invece un blando soul in punta di lingua, come già il gruppo aveva scritto in passato e continuerà a scrivere in futuro, un po' troppo sussurrato e inconsistente. Decisamente migliore l'esercizio di raffinato voyeurismo di "I Spy", una mini-opera o apologo musicale modellato su scenografie guizzanti di synth e archi che forse sintetizza tutto il senso di Different Class, guardando attraverso il buco delle serratura tutte le contraddizioni nascoste di un paese piccolo e insignificante come una casa di bambole (del resto, Cocker una volta ha affermato che la sua occupazione preferita è osservare la gente senza essere visto).
Per rifocillarsi ci sono comunque la frescura e le fragranze pop alla Costello di "Something Changed" e "Live Bed Show" (bella la sua inesorabile linea discendente) o le melodie rattrappite di "Underwear", che si sgranchiscono poi in un ritornello tagliato dalla luce limpida di una chitarra calda e ricamante. "Sorted For Es & Wizz" è un altro giocattolo di synth-pop trasognante e sbriciolato, così come la seguente e più angolosa "Feeling Called Love", in bilico tra kraut rumoristico e new wave stranita, un attimo prima di scoccare una sequenza melodica degna dei Duran Duran, non propriamente irresistibile.
Chiudono il cerchio "Monday Morning" e "Bar Italia": il primo disegna quasi uno ska gommato e ancheggiante, il secondo invece è un gradevole pop di gran mestiere, anche se non troppo penetrante, sulla scia di "Underwear", che cala un sipario tiepido e nostalgico sulle vacanze romane e gli amori gialli dei Pulp e della loro "Different Class".

L'album vince il Mercury Music Prize e il ricavato viene devoluto dai Pulp in beneficenza. Segue un anno di silenzio, caratterizzato dall'addio di Russel Senior, che intraprende progetti solisti (tra cui la band glam Venini). Il nuovo controverso album, intitolato This Is Hardcore, esce in contemporanea con l'omonimo singolo nel marzo del 1998, ma già nell'ottobre dell'anno precedente era stato pubblicato il singolo "Help The Aged". Seguiranno poi i singoli "A Little Soul", a giugno, e "Party Hard", in settembre. Sfruttando in parte la memoria ancora fresca di Different Class, il disco ottiene buoni riscontri. Nel frattempo Cocker lavora alle liriche per il ritorno del crooner Tony Christie e realizza per Channel Four tre documentari sulle avanguardie artistiche di inizio Novecento.
La cosa che più colpì all'epoca dell'uscita di questo disco fu senza dubbio il singolo "This Is Hardcore", che segna uno strappo piuttosto brusco e netto rispetto a certe spensieratezze della produzione precedente. Il pezzo (lungo quasi sette minuti, una sorta di "Bohemian Rhapsody" torbida e insanguinata) può essere considerato uno dei capolavori del gruppo (altrettanto splendido fu il videoclip che lo accompagnò) e va a coronare una delle più interessanti sottotrame di ricerca stilistica all'interno del percorso dei Pulp, iniziata nel primo disco con "Blue Girls", proseguita poi con "Being Followed Home" e "She's Dead" fino a "I Spy". Cocker riesce a fondere melodramma, musical, teatro dell'opera e cinema in una monumentale canzone dalla struttura maestosamente hitchcockiana, ripartita in tre movimenti fondamentali (assecondando quasi la classica scansione aristotelica del dramma), che seguono una precisa e graduale scansione emotiva e che convergono poi in un ritornello rarefatto e dilatato come la rivelazione del colpevole in un romanzo noir, che è poi in questo caso quasi un'ammissione di autocolpevolezza, come in ogni noir che si rispetti, del resto. Il tutto si dispiega a poco a poco secondo le movenze implacabili di uno sguardo demistificatore che affonda chirurgicamente la sua lama nella malattia di un mondo sempre più superficialmente vuoto e solipsistico. E proprio di disillusione, disincanto e forse lutto si deve parlare a proposito di questo disco, decisamente e intrinsecamente "nero", quasi un requiem o una messa funeraria per tutti i sogni e gli slanci quasi dannunziani (compresa la grande scommessa laburista) degli anni precedenti, che avvolge nella densa penombra delle sue altissime navate di imponente cattedrale gotica gli ultimi strascichi di blando edonismo legati all'ormai sopito britpop (in quest'ottica sarebbe interessante indagare la rete di rapporti e il fitto e inconsapevole dialogo tra questo disco e "Dog Man Star" dei Suede, realizzato nel 1994).
Il discorso musicale si sposta in direzione di Leonard Cohen, Tindersticks, Nick Cave e del Bowie più decadente del periodo "Thin White Duke". In questo senso l'ipnotica "Party Hard" è una sorta di scheletrica carcassa di quella "Disco 2000" in cui tutti facevano la fila per entrare e che mostra adesso il suo profilo disabitato e cadente, mentre "A Little Soul" si scalda alla fioca luce di un folk-pop domestico e remissivo, che ha quasi paura di farsi trovare dal mondo. "Help The Aged" è una canzone pop sopraffina, in linea con le migliori composizioni dei Pulp, ma il ritornello si specchia nelle acque rafferme di un'inquietudine sottile e silenziosa, che si propaga nella memoria e nella percezioni come una plumbea macchia nera o un buco di sfuggente psichedelia sempre più largo.

Il resto del disco non è sempre allo stesso livello, e qua e là emergono segni evidenti di stanchezza e scarsa lucidità (dovuta anche all'uso abbondante di stupefacenti in cui la band era lentamente scivolata). Ciò non toglie che This Is Hardcore rimanga a tutt'oggi l'opera dei Pulp più apprezzata dalla critica, che tende spesso a preferirla ai due dischi precedenti in virtù della maggiore complessità tematica e grande ricchezza compositiva di alcuni suoi episodi. Tuttavia, non può essere ascritto a quest'opera il conseguimento di quella maturità espressiva che era in fondo già stata pienamente raggiunta dai tempi di His 'n' Hers, semmai quello a cui ci troviamo di fronte è un significativo, e per certi aspetti irreversibile, allargamento di prospettiva. Fatto sta che "The Fear" è solo di poco inferiore a "This Is Hardcore", nel suo aggirarsi fra rovine di una magnificenza pop ormai decaduta, prima di sgranare lo sguardo nelle occhiaie profonde di un ritornello dal rossetto sbavato che ricorda quasi i Queen. Meno convincente e forse ripetitivo (in un disco che già contiene "A Little Soul"), il croonerismo finemente ombreggiato di "Dishes" e lo Scott Walker in punta di matita della fischiettante "Tv Movie", con un Cocker non molto in forma dal punto di vista vocale.
"I'm A Man" svuota su un tavolo di chitarre sostenute tutte le melodie che ancora tintinnano nelle tasche, ma non racimola che qualche spicciolo di "Different Class". Più interessante il recital gorgogliante di "Seductive Barry", intriso di tenebrosi umori Depeche Mode (e sembra quasi che la lancette tornino indietro agli anni di Freaks) e altrettanto buono risulta il corredo di melodie agrodolci di "Sylvia", davvero Pulp che più Pulp non si può. Più anonime "Glory Days" (anche qui l'impressione di una "Common People" increspata da rughe profonde e goffe movenze si fa a ogni ascolto più forte) e il glam affannoso "The Day After The Revolution", che si agita sul palcoscenico di uno spettacolo ormai concluso e abbandonato (e che pure non vuole rassegnarsi a finire).

Bisognerà attendere ben tre anni per ascoltare il nuovo album dei Pulp, We Love Life, che esce nel 2001 prodotto proprio da "quello" Scott Walker, idolo inarrivabile di un Cocker ancora giovane. Nonostante introduca alcune significative innovazioni stilistiche e formali nel tessuto ormai spesso della musica dei Pulp, il disco non riceve grandi attenzioni da parte di pubblico e critica, e in una certa misura prelude alla temporanea cessazione di attività ufficiali da parte della band, che nel 2002 pubblicherà una riepilogativa raccolta di Hits (unico inedito la discreta "Last Day Of The Miner's Strike"), in realtà piuttosto scarna e parziale (comunque buona per avvicinarsi alla produzione del gruppo), che raggiungerà una poco lusinghiera settantesima posizione in classifica, segnando forse il culmine di un declino di popolarità davvero inesorabile.

Nel 2006 la Island ristampa molto opportunamente (in versione rimasterizzata e arricchita di inediti e outtakes) l'ormai storica e ampiamente storicizzata trilogia His 'n' Hers, Different Class, This Is Hardcore, e più o meno nello stesso periodo pubblica una doppia raccolta di Peel Sessions di cui si è già detto, tutte iniziative che in piccola misura rilanciano un vivace dibattito critico e un rinnovato interesse verso questo gruppo. Che dire di We Love Life? Certo non un capolavoro o un disco epocale, ma di sicuro nemmeno un'opera così poco ispirata da giustificare una brusca interruzione delle attività da parte del gruppo. A suo modo We Love Life suggella il percorso dei Pulp all'insegna della circolarità, riportando il gruppo nel suo ultimo approdo ai placidi e sussurranti lidi del primo disco It, senza contare la non casuale produzione di Scott Walker, l'uomo da cui forse tutta la vicenda umana e musicale dei Pulp aveva preso originariamente le mosse.
L'inizio è affidato al cerimoniale solenne e luminoso di "Weeds", un poema naturalistico che innalza il suo tempio votivo a un pop di beatlesiana memoria, straordinariamente impetuoso anche grazie a chitarre che si mettono a danzare attorno al fuoco della voce di un Cocker rigenerato. Il secondo movimento del pezzo avanza tra new age e psichedelia digitale e sintetica (molto Pink Floyd e Tangerine Dream), connettendosi telepaticamente alla voce ancestrale della Terra grazie a un Cocker semplicemente dionisiaco, che libera tutto il proprio potenziale visionario raccontando con piglio sciamanico il grande romanzo dell'universo.
"The Night Minnie Timperly Died" aggiunge un altro cimelio all'ormai nutrita collezione di oggetti di modernariato pop targati Pulp, mentre "The Trees" ribadisce la volontà di rappacificarsi in un panteistico abbraccio con una natura tutt'altro che matrigna: il pezzo ha un piacevole passo swingante e si dirama in un ritornello fresco e rassicurante, come le fronde mosse di quegli alberi di cui canta la sovrana beatitudine. Più che una canzone, "Wickerman" è un mezzogiorno di fuoco sofferto e declamante, e sembra quasi Johnny Cash riletto da Ray Davies. Il brano si lascia prendere tuttavia la mano da tentazioni troppo insistite di compiaciuta teatralità, specie nella seconda parte, intrisa di epica western molto morriconiana (da notare le altissime e ripide mura orchestrali ai limiti dello spectoriano). "I Love Life", molto barocca ma profondamente indecisa, non riesce a incanalarsi in una precisa direzione melodica, perdendosi in un gioco di specchi e rifrazioni, anche se gli arrangiamenti sono di tessuto prezioso e dettagliatamente decorato; "Bad Cover Version", quasi un'autoparodia, onora invece il suo titolo con una prestazione di pop volutamente scialbo e insapore, nei cui poteri taumaturgici il gruppo non crede più, ma alla quale si finisce poi col soccombere. Anche qui da notare una produzione scintillante e priva di smagliature, merito probabilmente del maestro Walker.
"The Birds In Your Garden" non ha grandi argomenti con cui giustificare le sue soffici cascate di zuccherosa panna dream-pop, mentre la successiva "Bob Lind (The Only Way Is Down)" riporta i pensieri all'isola di giovane innocenza di It, con crepuscolari chitarre byrdsiane a intessere la tela paziente della memoria. "Roadkill" immerge una mano stanca nelle acque fluenti di un ruscello folk dimesso, che scorre a ritmo lento (forse troppo, ma bisogna saperlo aspettare), la finale "Sunrise", invece, ritorna all'esordio tuonante di "Weeds" con uno squarcio di pura luce incorporea che prende la scena nell'aurorale ritornello, facendo segno verso una tensione indicibile e inappagata che chiede soltanto di fermarsi in silenzio e restare ad ascoltare, lungo i margini di ciò che la musica non può ancora dire.

Più che un addio, questo We Love Life ha in definitiva il suono aperto di un provvisorio arrivederci che prima o poi, ed è questa la speranza, troverà un seguito adeguato. Ma la storia non finisce certo qui. Non finisce perché "Jarvis" (come ama vezzosamente firmarsi adesso) è ormai entrato stabilmente a far parte di quella esclusiva aristocrazia di cantautori inglesi ai quali tutti i nomi che contano chiedono la grazia di una canzone. Jarvis si trasferisce così in esilio volontario a Parigi con moglie e prole e scrive, se gli va, pezzi per Jane Birkin, Charlotte Gainsbourg o Air (al fianco del sodale/rivale Neil Hannon dei Divine Comedy), o si regala passatempi sbadiglianti ed estemporanei, come la partecipazione alle colonne sonore di "Harry Potter" o "Pirati dei Caraibi", senza disdegnare una partitina a polo nell'electroclash intriso di bestemmie del progetto Relaxed Muscle, insieme al nuovo e stiloso compagno di merende Richard Hawley, nascosto dietro la mascherina dello pseudonimo Warren Spooner.

Ma la cosa più significativa è il disco a nome Jarvis, che arriva nei negozi nel 2006. Più che un disco, una partita a solitario e ogni carta sembra sfoderare uno scorcio furtivo dei Pulp che furono. Il singolo "Don't Let Him Waste Your Time" è un'allegra marcetta infarcita di piccoli crescendo orchestrali. Godibili anche il glam scampanante di "Black Magic" (con un sample di "Crimson And Clover" di Tommy James and the Shondells) e la melodia calda e croccante di "Heavy Weather", che ha un profondo respiro quasi springsteeniano.
Ma gli episodi più toccanti sono anche quelli più intimi e personali: "Baby's Coming Back To Me" avanza gattoni su tracce leggere di xilofono, piene di sincero stupore come un bimbo che prende possesso del mondo; "From A To I" rinvia al ritmo lento e regolare dei viali alberati di "The Trees" (in We Love Life) e si lascia coccolare da un brezza tiepida che spira direttamente dagli anni Sessanta, similmente alla pianistica "I Will Kill Again". "Fat Children", con i suoi caustici anatemi, arroventa le atmosfere con un rock sgangherato e sferragliante, che viene poi sedato nelle spesse e solenni volute di fumo di "Disney Time".
"Tonite" difetta un po' nel ritornello troppo scarno e conferma la generale impressione (ribadita dai rimanenti pezzi, incluso il fortunato singolo - qui ghost track - "Running The World") di un autore ormai completamente maturo e padrone della propria inconfondibile scrittura, che più che proseguire l'imponente lavoro lasciato in sospeso decide di cogliere qualche fiore sparso cresciuto senza un perché nel minuscolo orticello della propria fantasia, lasciata libera di inseguire i suoi mutevoli e incostanti umori.

Nel 2009 esce il nuovo album, Further Complications, che viene prodotto per un curioso paradosso della sorte da Steve Albini (!?), e sembra confermare l'"indecidibilità" di uno degli ultimi indomabili fantasisti della musica pop britannica.
Un'opera bifronte, in bilico tra crassa pagliacciata ed esercizio di sottile onnipotenza inventiva, balla colossale e fragoroso elogio di una superiore intelligenza affabulatoria. Ognuno può rimettere insieme i tasselli disordinati seguendo il tracciato che più preferisce: dal mellifluo e glitterato disco-soul della fulgidissima "You're In My Eyes (Discosong)" fino al glam molleggiato di "Angela", passando per la new wave futuribile e strumentale di "Pilchard" e i capricci garage-beatlesiani di "Caucasian Blues". E se "Fuckingsong" corteggia un'ipotesi lasciva di hard-rock priapeo del cazzo (letteralmente), "I Never Said I Was Deep" cerca di spiegare come la profondità sia soltanto un grande equivoco linguistico o forse una piacevole illusione amorosa, adagiandosi su scenari di illanguidito swing-jazz espezzoni di musical artigianale, prima che i sei minuti abbondanti di "Slush" si lascino inghiottire in una coltre di chitarre nebulizzate vagamente shoegaze e cori da messa gregoriana.
Una labirintica festa della menzogna e della più sfrenata mistificazione, in cui tutto può essere tutto ma anche niente. E anche questa, bisogna pur ammetterlo, può spesso rivelarsi un'esperienza piacevole e decisamente molto istruttiva.

Nel 2017 Jarvis Cocker torna sulle scene, ma non è solo. In "Room 29" duetta infatti con il pianista canadese Chilly Gonzales in una sorta di concept album dedicato all'Hotel Chateau Marmont di Los Angeles. Registrate a Parigi dopo un lavoro di documentazione e di traduzione in testi e musica durato tre anni, le sedici tracce di "Room 29" uniscono due mondi solo in apparenza lontani. Da un lato, i tocchi di pianoforte di Gonzales, accompagnati solo dalle lievi orchestrazioni del Kaiser Quartett che concorrono a evocare l'atmosfera; dall'altro, lo spoken word di Cocker si tramuta a tratti in cantato, laddove la teatralità del momento evocato lo necessita (si vada ad ascoltare l'interpretazione teatrale di "Daddy, You're Not Watching Me"). Ne esce un quadro dipinto con poche ma intense pennellate, tanto minimale quanto espressivo, anzi evocativo. Si lambiscono picchi di emozionante eleganza ("Tearjerker") e atmosfere d'antan che potrebbero uscire dalla penna di Neil Hannon ("Clara"), ma sempre procedendo in punta di piedi, come per non rompere l'incantesimo del momento. Più estroverse sono le parabole di "A Trick Of The Light" e di "Belle Boy", operette in miniatura che mettono in luce il lato più istrionico di Cocker con toni che scivolano abilmente tra la leggerezza e la drammaticità.

Nel 2020 Cocker vara un altro progetto che prende letteralmente il suo nome: JARV IS... Jarvis Cocker. Più amletico di un personaggio shakesperiano, il leader dei Pulp si guarda allo specchio e prova a tirare qualche somma. Nonostante la band che si è creato attorno - Serafina Steer (arpa, tastiere, voce), Emma Smith (violino, chitarra, voce), Andrew McKinney (basso, voce), Jason Buckle (synth, elettronica) e Adam Betts (batteria, percussioni, voce) – non esiste probabilmente album cockeriano più declinato in prima persona di “Beyond the Pale”. Del resto, basta leggere titoli come “Must I Evolve?”, “Am I Missing Something?” o “Sometimes I Am Pharoah”, spesso declinati in tono interrogativo, per cogliere la dimensione esistenziale e del tutto personale di questo repertorio. Tutto questo spiega anche il perché “Beyond the Pale” sia un album più umbratile di quanto Cocker provi a far credere. C'è ad esempio più nostalgia che voglia di festeggiare nelle riflessioni di “House Music All Night Long”, un titolo che lascerebbe presagire tutt'altre atmosfere. Con questo non si vuole affermare che il disco sia una parata di canzoni amare, intendiamoci, tuttavia il Nostro sembra più che mai alle prese con riflessioni che è difficile stabilire a quali conclusioni possano portare.


Se dovessimo tenere presenti le domande di cui sopra, nonostante le risposte affermative del coro, saremmo tentati di ribadire che Jarvis Cocker non ha alcuna intenzione di invecchiare, né di allinearsi. Il repertorio di questi Jarv Is è forse ciò che più si avvicina ai Pulp, manco a farlo apposta. Brani ancora più scarni, con i synth in bella mostra, ma che non rinunciano a lanciarsi in lievi orchestrazioni condotte per mano dal violino come in “Save the Whale”, forse il momento più riuscito, con tanto di bisbiglio ammiccante à laSerge Gainsbourg. Il synth-pop di “Am I Missing Something?” è improntato a un minimalismo melodico tutto nuovo, seppur aperto a un crescendo finale, in un contesto che rimanda ai tempi di “This Is Hardcore”.

Pur non essendo, va detto, un album particolarmente ispirato, il buon Jarvis riesce a tirare fuori dal cilindro quel pugno canzoni sopra le righe: oltre ai due pezzi appena citati, senza dubbio una “Sometimes I Am Pharoah” che introduce una vena avanguardista tutto sommato inedita e, al contempo, riuscita, e pure una “Children of the Echo” che sfodera un gran ritornello dalle strofe più cincischianti del lotto. Bizzarro, tra l'altro, che in quest'ultima, così come in “Sqanky Modes”, Cocker sembri fare il verso all'Albarn più maturo, come se la scena brit fosse ancora un gioco di specchi.



Contributi di Fabio Guastalla in "Room 29" e "Beyond the Pale".

L'autore desidera ringraziare Giorgio Rajani per il preziosissimo e insostituibile aiuto.

Riferimenti bibliografici:

M. Melissano: Brit. La nuova scena inglese - Castelvecchi
L. Bonanni: Gli Oasis e il brit pop. Come sentirsi vivi negli anni Novanta - Lo Vecchio
C. Villa: Brit pop. Piccola enciclopedia (1990-1997) - Giunti

Pulp

Discografia

PULP

It (1983)

6,5

Freaks (1987)

5

Separations (1992)

6

Intro: The Gift Recordings (antologia, 1993)

His 'n' Hers (1994)

8

Masters Of The Universe (antologia, 1994)

Different Class (1995)

8

Countdown 1992-1993 (antologia, 1996)
This Is Hardcore (1998)

7,5

Pulp On Fire (antologia, 1999)
We Love Life (2001)

7

Hits (antologia, 2002)

John Peel Sessions (2006)

RELAXED MUSCLE

A Heavy Night With (2003)

JARVIS COCKER
Jarvis (2006)

6

Further Complications (2009)

6,5

Room 29 (2017)

7,5

Beyond the Pale (2020, w/ JARV IS... Jarvis Cocker)

6

Pietra miliare
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