Tindersticks

Tindersticks

Noir pop per orchestra

In bilico tra il songwriting più romantico e il repertorio più "noir" di cantautori come Leonard Cohen e Nick Cave, i Tindersticks hanno percorso di traverso gli anni del britpop e dell'indie-rock, inventando un nuovo genere: un pop orchestrale dalle sonorità maestose e funeree

di Claudio Fabretti, Raffaello Russo + AA. VV.

I Tindersticks sono quasi un caso di scuola di una grande pop band, considerata "troppo sofisticata per piacere al pubblico" e pertanto incomprensibilmente destinata a una carriera sottotraccia, quando, in realtà, con almeno un pugno di suoi brani, avrebbe potuto tranquillamente spopolare nelle radio e nelle classifiche di mezzo mondo. Misteri del music business... Quel che è certo è che sono stati una delle formazioni-cardine del pop britannico d'oltremanica a partire da un decennio, quello Novanta, troppo spesso identificato soltanto con i fenomeni del grunge e del britpop. Eppure, in quello stesso periodo capitava che, tra un brano dei Nirvana e uno degli Stone Roses, sulle radio "alternative" si affacciasse qualcosa di completamente diverso, opera di una band tanto ampia quanto oscura, votata alla rideclinazione in una sinistra chiave orchestrale del raffinato cantautorato di Leonard Cohen, coniugato con le atmosfere malate di Nick Cave e con uno spleen latente, intriso di uno spirito decadente, inebriato dei fumi dell'alcool e del tabacco.
Per conseguire un risultato di tale dolente eleganza era necessario un impianto strumentale capace di bilanciare romanticismo orchestrale, spirito "indie" e sensibilità melodica, nonché una voce vibrante, che rinverdisse con propria personalità i fasti del citato Cohen e il fascino degli chansonnier francesi, Brel e Gainsbourg in testa.
Quello dei Tindersticks è dunque un pop orchestrale, scuro e avvelenato d'assenzio, lontano dai carillon chitarristici che hanno proliferato in quegli anni nella Perfida Albione. Mentre molti loro conterranei sceglievano - alcuni con successo, altri meno - la strada in discesa del pop di marca Beatles-Kinks, i Tindersticks allestivano un affresco di suoni e liriche di grande fascino romantico, creando, di fatto, un filone del tutto peculiare nella scena britannica contemporanea.

Il gruppo di Nottingham affonda le sue radici negli Asphalt Ribbons, una indie band di Nottingham, comprendente il cantante Stuart Staples, il tastierista David Boulter e il violinista Dickon Hinchcliffe. Questo terzetto, trasferitosi a Londra, dà vita ai Tindersticks nel 1992. Gli altri membri sono il chitarrista Neil Fraser, il bassista Mark Colwill e il batterista Al Macaulay. Nel novembre 1992, la band pubblica il suo primo singolo, "Patchwork", per la propria etichetta, la Tippy Toe. Seguono l'anno successivo "Marbles" e "A Marriage Made in Heaven" (insieme a Niki Sin degli Huggy Bear). Dopo l'uscita dell'Ep Unwired, con un paio di brani che testimoniano la predilezione di Staples per gli amori disperati ("Rottweilers and Mace") e per gli umori cupi ("Feeling Relatively Good"), la band viene ingaggiata dalla piccola etichetta indipendente This Way Up, che pubblicherà il suo esordio ufficiale sulla lunga distanza.

Il piccolo miracolo di riassumere tutti questi elementi in un'unica band e in uno strepitoso album d'esordio è riuscito a questo lavoro, che rivelò il timbro da crooner di Stuart A. Staples e un gruppo di musicisti capaci di pennellare infinite sfumature di pop orchestrale lungo il monumentale impianto di ventuno tracce per quasi ottanta minuti di durata. Influenzato anche dal lavoro del produttore Lee Hazelwood (Nancy Sinatra), Tindersticks (1993) è uno dei debutti più folgoranti dell'intero decennio Novanta. Un lavoro minuzioso e monumentale, che in quasi ottanta minuti di musica e in 21 tracce racchiude tutti gli umori, le passioni, il genio orchestrale e il talento melodico del gruppo.
Protagonista assoluto è comunque Staples, prim'attore di una compagnia di affascinanti guitti notturni da cabaret parigino. Il suo inconfondibile canto da crooner romantico, nella tradizione di Bryan Ferry e David Bowie, Leonard Cohen e Serge Gainsbourg, è il filo conduttore di un'opera resa affascinante anche dai suoi tormentatissimi testi, storie d'amour fou che affondano nei recessi più oscuri della sua mente, rivelandone anche alcune vere manie (ad esempio, quella per i fluidi - vedi i titoli "Blood," "Jism", "Nectar", "Whiskey And Water", "Raindrops"...). Il resto del gruppo asseconda il suo canto con delicati fraseggi, al confine fra folk e musica da camera, attraverso arrangiamenti intensi ma senza enfasi, con i contrappunti del violino e i rintocchi spettrali del piano a intessere atmosfere torbide e sensuali. Nonostante la complessa strumentazione allestita (le trombe, la sezione d'archi), il loro sound fluisce sempre in modo organico e suadente, senza mai scivolare in una lounge music da sottofondo (rischio considerevole per un progetto di questo tipo). Gli interventi dei vari strumenti sono spesso in contropiede, a sorpresa, quasi a voler creare un senso di ansia e di attesa nell'ascoltatore proprio mentre sta per cadere ipnotizzato dalla malia di questo dolce flusso sonoro.
Sfuggente agli stessi canoni formali di un'opera pop, la complessa articolazione del lavoro va di pari passo con la straordinaria espressività filtrata attraverso l'angoscia esistenziale dei testi, supportati alla perfezione da una rara profondità interpretativa e dalle incessanti variazioni di registro della band, capace di alternare soffusi fraseggi acustici, inquiete dissonanze e raffinate piéce cameristiche. L'album è al contempo un affresco di malinconia crepuscolare e una raccolta di canzoni realizzate in punta di melodia, tanto nei passaggi intimi e minimali quanto nelle più frequenti aperture a una grandiosità orchestrale mai stucchevole o fine a se stessa, ma contrassegnata da un accurato lirismo e da irrequieti inserti strumentali.
Se si eccettua il timido ma sinuoso andamento uptempo dell'iniziale "Nectar", il primo segmento del lavoro offre un saggio fulminante dello stile e delle coinvolgenti qualità narrative dei Tindersticks. Accanto al primo dei tre frammenti del brano "a puntate" "Sweet Sweet Man" (il ricorrere del cui ritornello "a sweet sweet man like me, I can only bring you the misery" esemplifica da solo a sufficienza la poetica di Staples), si passa con ostentata nonchalance, quasi senza soluzione di continuità emotiva, dalla vellutata claustrofobia della tromba e degli improvvisi spasmi elettrici di "Tyed" a due autentici brani-simbolo quali "Whiskey & Water" e "City Sickness", inni sofferti dell'abbandono a una solitudine dolente, a una malinconia tanto profondamente radicata nell'animo da apparire quasi agognata e assaporata con voluttà. Sono questi tra i brani più struggenti e di pronto impatto di tutto l'album, nei quali solitudine e disagio interiore si mescolano nelle inestricabili tenebre ("the light is just a memory to me now") di un isolamento pubblico e privato, la cui tensione viene dissolta solo in parte dall'apparente imperturbabilità armonica di Staples. Allo stesso modo, l'accostamento tra orchestra e distorsioni elettriche affioranti incarna in maniera impetuosa la sofferenza e la sorprendente leggiadria di "Milky Teeth" e la sottomissione al sentimento che promana da "Jism" ("If she'd have known, she'd have shown me in/ I need to taste her pain for encouragement"), brano dall'andamento folkeggiante, che si sviluppa tra l'angosciosa solennità dell'organo e ripetute impennate orchestrali, culminanti in un accorato grido finale.
L'album non vive tuttavia soltanto di momenti di irruente esplicitazione di una sensibilità tormentata, presentando altresì il lato più romantico della band, che si dimostra pienamente a proprio agio tanto nell'applicazione di componenti melodiche a più compunti giochi di dissonanze ("Paco De Renaldo's Dream", lo spoken word di "Marbles") quanto nel raccoglimento di brani che virano con decisione verso obliqui sentori folk e raffinatezze da chansonnier confidenziali. Gli aspetti più intimisti del lavoro emergono poi con maggior decisione nella sua parte conclusiva, ove - se si eccettua l'urticante flamenco di "Her" - prevalgono atmosfere di soffuso abbandono, come se le luci del fumoso locale in cui suonano Staples & C. si fossero smorzate e il frastuono avesse lasciato il posto a pochi, desolati rumori di fondo, unico contorno alle ebbre considerazioni sulla vita e sull'amore delle splendide "Drunk Tank" e "Raindrops" e del perfetto finale "The Not Knowing".
Ancorché meno immediati rispetto alle abrasive ballate orchestrali di inizio disco, i brani più delicati e raccolti esaltano il talento melodico di Staples e la qualità compositive della band, capace di arricchire canzoni dalle strutture disadorne di un piglio personalissimo, semplicemente attraverso gli arrangiamenti d'archi e il suono elegante e antico dell'organo di Boulter. Staples, dal canto suo, sprofonda in autentici dirupi di tristezza, si prenda ad esempio la struggente piece di "Jism", immalinconita dalla sua melodia iniziale di organo/tastiera e dai suoi gemiti di violino: "Give up the drugs/ Take the power I offer/ Oh the deeper I go/ The further I fall/ The more I know/ The tighter your grip around me/ So easily broken". Se esiste lo slo-core, questo si può ribattezzare benissimo "sad-core".
Tindersticks viene nominato "Album of the Year" da Melody Maker e guadagni entusiastici giudizi della critica. Solo quelli, però, perché qualcuno ha deciso che la massa deve essere tenuta lontana da un simile tesoro.

Dopo un simile esordio, ripetersi diventa quasi impossibile. Tindersticks II (preceduto dai singoli "Kathleen" e "No More Affairs"), però, ci prova. Con coraggio, ma forse anche con un pizzico di autoindulgenza. Per l'occasione la band si avvale di qualche cameo d'eccezione, come quelli di Terry Edwards dei Gallon Drunk e di Carla Torgerson dei Walkabouts. L'impianto resta maestoso, ma non sempre pare sorretto da un'adeguata ispirazione in fase di scrittura. Dominano soprattutto il piano e la chitarra acustica, con qualche inserto di violino, batteria e tromba.
Le canzoni di Staples restano ossessive e angosciose ("El Diablo En El Ojo", "Mistakes"), affogando talvolta nell'humor nero ("My Sister") la disperazione, ma spiccano anche una maggiore cura per i passaggi strumentali estesi e alcuni duetti da brividi, come quella "Travelling Light" che è un po' il tour de force emotivo del disco: una favola amara su separazione e recriminazioni, interpretata insieme alla Torgerson. Il talento del gruppo si esprime al meglio anche negli episodi più sobri e intimisti, come in "Tiny Tears", con il suo triste organo solitario, nelle strumentali "Vertrauen II, III", e nella melanconica "No More Affairs", epitome di tutti i rimpianti d'amore.
Altre volte, invece, ("A Night In", "Cherry Blossoms") la band si perde in ballad più melliflue e fumose.

Nel 1996 i Tindersticks avviano il fortunato sodalizio con la regista francese Clair Denis, firmando la colonna sonora del film Nenette Et Boni, un album prevalentemente strumentale, all'insegna di un pop-jazz dalle forti tinte notturne, contraddistinto ancora una volta da eleganti arrangiamenti d'archi.

Con il successivo album Curtains (1997), invece, il sestetto di Nottingham vira verso un avant-pop più magniloquente a forte rischio-pretenziosità. Non mancano, infatti, le ambizioni sperimentali (una ricerca d'avanguardia su un jazz-pop minimalista, le cacofonie d'archi), ma sembra scarseggiare, rispetto al passato, la continuità, con lo spettro della noia a farsi minacciosamente largo. Gli ospiti speciali questa volta sono la cantante e attrice Ann Magnuson, che compare nel duetto "Buried Bones", l'attrice Isabella Rossellini, che si cimenta al canto in "Marriage Made in Heaven", e i due trombettisti "salsa" Jesus Alemany e Joe de Jesus. Staples si mantiene comunque assoluto mattatore, con il suo baritono melodrammatico e le sue liriche intrise di pessimismo esistenziale, lambendo a volte i territori desolati di Scott Walker e di Nick Cave ("Another Night In Rented Rooms", "Let's Pretend", "Ballad Of Tindersticks").
La parola che forse connota al meglio questo disco è però "maniera", seppur sempre di gran classe.

L'apertura ufficiale della "crisi" viene sancita con il successivo Simple Pleasure (1999). Il suono dei Tindersticks, da vibrante e maestoso, si fa vieppiù scontato e anemico. Se l'iniziale uptempo di "Can We Start Again" sembra far presumere una svolta "ottimistica" nel loro sound, i brani successivi confermano Staples nei panni del bardo romantico in preda a struggimenti amorosi, da "Before You Close Your Eyes" a "I Know That Loving", fino alla conclusiva "CF GF", tutte intrise di sapori soul e gospel.
Ma forse la vera prodezza del disco è "If You're Looking For A Way Out" che trasforma il successo soul anni 80 degli Odyssey in una ballata di straordinaria tenerezza. Una tenerezza che pervade buona parte del disco, degenerando però troppo spesso in leziosità pedante. In questo modo, si perde gran parte del fascino iniziale del sound-Tindersticks, sofisticato e rarefatto sì, ma sempre passionale e capace di "spiazzare" l'ascoltatore al momento opportuno.
Simple Pleasure è stato in pratica rinnegato anche dalla stessa band. "Era un lavoro troppo cerebrale - ha spiegato in un'intervista Staples - La nostra musica era diventata eccessivamente astratta e lambiccata, priva di un'anima".

Già il successivo Can Our Love, tuttavia, fa ricredere quanti li ritenevano ormai in declino, intrappolati in quei cliché che loro stessi avevano contribuito a creare. Messo un freno alla loro prolissità (8 sole le tracce in scaletta), i Tindersticks risorgono grazie soprattutto alla loro vocazione per il soul d'ascendenza Motown. Un "Northern Soul", elegante e oscuro, reso attraverso ballate avvolgenti, che sanno di fumo, alcol e locali notturni del Vecchio Continente. Il disco alterna ballate lente e struggenti, come l'iniziale "Dying Slowly", a incursioni soul d'ampio respiro, come "People Keep Coming Around", sorretta da un giro di basso pieno di ritmo con il baritono di Staples che singhiozza depresso e i fiati che prendono il largo nel finale, o "Don't Ever Get Tired", in cui il cantante sembra quasi fare il verso all'Otis Redding più disperato. Altre volte il loro romanticismo si libra sulle semplici frasi del violino ("No Man In The World"), sugli arpeggi sommessi di chitarra ("Don't Ever Get Tired"), sulle note solenni di un organo Sixties alla Procol Harum ("Sweet Release, Chili Time") o su un sospiro di fiati lontani ("Can Our Love"). In generale, il disco mostra incoraggianti segnali di ripresa e testimonia la voglia della band di rimettersi in gioco, ampliando la propria gamma sonora.

Il momento felice è confermato anche dalla colonna sonora per un'altra pellicola della Denis, Trouble Every Day. Un thriller che ha rappresentato l'evento più "scandaloso" del festival di Cannes 2001. Definito "un horror geneticamente modificato, color rosso sangue" per il suo concentrato di sesso, violenza e cannibalismo, il film ha indignato o entusiasmato a seconda dei gusti. Ma, oltre alla bravura dei protagonisti Vincent Gallo e Beatrice Dalle, a mettere tutti d'accordo è stata proprio la colonna sonora. Un'opera dalle tinte malinconiche e decadenti, in linea con il repertorio più "notturno" del sestetto di Nottingham.
Il sodalizio con la Denis si conferma felice, insomma, come ha confermato David Boulter, il tastierista della band: "Il bello di questa esperienza con Claire è che lei ci ha lasciati completamente liberi. Si è ispirata alle nostre musiche nel girare il film quasi più di quanto noi ci siamo ispirati alle sue immagini nel comporre la colonna sonora". Il cantante, Stuart Staples, si è spinto ancora più in là: "Credo che con Claire sia nato ormai un rapporto profondo. Vogliamo lavorare di nuovo insieme, perché abbiamo molto in comune, nella visione delle cose e nell'approccio al lavoro".
Tra le note dei Tindersticks, la violenza del film si stempera in un sommesso requiem. È una lenta discesa agli inferi, che comincia sulle note degli "Opening Titles", il tema dominante, rielaborato via via con variazioni di stile ora eteree, ora incalzanti, e con il baritono di Staples che torna a intonare una melodia dolente, a metà tra il Cave più depresso e il Cohen più noir. Lo spirito del disco si dibatte tra momenti di stasi e sprazzi di tensione allo spasimo. Un sinistro ticchettio agita la quiete di "Maid Theme", mentre la tromba minacciosa di "Room 321" contribuisce ad appesantire un clima che si fa sempre più thrilling con i rintocchi di campana di "Notre Dame" e i bassi cupi di "Killing Theme". "Closing Titles" chiude il disco accentuando gli archi e la sezione ritmica, con il baritono monocorde di Staples che torna a intonare la melodia triste di "Trouble Every Day". I brani scorrono via lenti e maestosi. Unico limite, forse, una certa ripetitività che non compromette tuttavia l'impatto emotivo dell'opera.
Con Trouble Every Day, infatti, i Tindersticks sembrano tornati alla forma migliore. "È come se la nostra musica si fosse rianimata - ha spiegato Staples -. È tornato un senso di spontaneità che sembrava perduto e che invece, forse, non era mai scomparso del tutto". Le immagini di Claire Denis, insomma, sembrano aver resuscitato il lato più emozionante del loro sound. "Stiamo lavorando su un sacco di idee. Ognuno nella band è soddisfatto e ci sentiamo pronti ad affrontare nuove sfide".

Peccato però che il successivo lavoro in studio, Waiting For The Moon (2003), deluda in gran parte le attese. Nell'arco delle dieci tracce, infatti, gli sbadigli prendono il sopravvento sull'entusiasmo iniziale. I momenti davvero memorabili del disco sono quelli in cui si compie il miracolo della fusione del canzoniere cupo di Leonard Cohen col talento orchestrale di Burt Bacharach. "Until The Morning Comes", ad esempio, è un rimarchevole esercizio di pop melodico, avvolto in sonorità suadenti e malinconiche, con la voce di Staples a riecheggiare il baritono caldo del bardo canadese. Ancor meglio riesce a fare "Say Goodbye To The City", vetta emotiva del disco, con il suo intrecciarsi di atmosfere soffuse e impennate di ritmo, con un violino struggente à-la Dirty Three e con ventate di tromba poderose nel finale. Già "Sweet Memory", però, sprofonda in un clima svenevole, da caffè decadente alla melassa. Temendo di far addormentare l'ascoltatore, i Tindersticks piazzano allora la sorpresa del disco: la psichedelica "4.48 Psychosis" (unica traccia non firmata dalla band, bensì da Sarah Kane), che fa salire decisamente il ritmo, introducendo chitarre elettriche ad alta tensione e un drumming secco e incisivo.
Ma dopo questo sussulto l'album precipita nuovamente nel torpore. Il carillon della title track, accompagnato dalla voce bisbigliata di Staples si fa apprezzare solo per i tenui gemiti di violino sullo sfondo. "Trying To Find A Home" prosegue sulla stessa falsariga, ma accentua la dimensione "blues/soul" della band, riecheggiandone tuttavia più le derivazioni "bianche" (Beatles, Rolling Stones) che le origini afro-americane. È forse l'ultimo momento felice dell'album, che finisce con lo scivolare in un soft-pop senza nerbo. Il duetto di "Sometimes It Hurts" (con l'elegante vocalist Lhasa De Sela) accarezza senza graffiare, lasciando un sapore un po' troppo melenso. "Oblivion" è un altro saggio "orchestral-romantico" dei Tindersticks, ma senza più alcun pathos. La digressione "giocosa" di "Just A Dog" non è spiazzante, ma fastidiosa. E la conclusiva "Running Wild" vede Staples nei panni di un Bryan Ferry anestetizzato con massicce dosi di morfina. Peccato, perché anche in un disco minore come questo non mancano i segni di un talento compositivo decisamente superiore alla media.

Forse avvertendo che qualcosa si è spezzato nell'equilibrio della band, Stuart A. Staples decide di concentrarsi su una carriera solista all'insegna della tradizione del crooning d'autore. Lasciando sempre aperta la possibilità di una ricostituzione dei Tindersticks.
Proprio il secondo album di Staples, "Leaving Songs", è l'occasione di un suo primo riavvicinamento con tre degli ex-compagni - Neil Frazer, David Boulter e Terry Edwards - seguito, a breve, da un'estemporanea reunion collettiva per l'esecuzione dal vivo di Tindersticks II presso la Barbican Hall nel settembre del 2006. A quel punto, il lungo silenzio della band e i paralleli impegni dei suoi membri avevano già rigenerato a sufficienza le rispettive ispirazioni, tanto da rendere del tutto naturale riprendere a fare musica insieme. Superata la "crisi del settimo album", i Tindersticks si sono messi quindi nuovamente al lavoro insieme, impiegando tutto il 2007 nella stesura di un nuovo disco, in una formazione che differisce da quella originale soltanto per il contributo di Thomas Belhom alla batteria.

Il risultato, The Hungry Saw (2008), si presenta nel più classico stile Tindersticks, a partire dall'iconografia del cuore trafitto in copertina e dai tre minuti e mezzo della strumentale "Intro", ove note stillate con lentezza dal piano fanno subito riacclimatare con le atmosfere fumose della band. La struggente ballata "Yesterday Tomorrows" sembra presentarsi come un nuovo inizio che riporta al presente i problemi e le speranze dei giorni passati. Uno spleen nostalgico invade sottotraccia canzoni costruite intorno al lirismo di Staples e ad arrangiamenti orchestrali, soffusi e notturni, incentrati sul piano e sugli archi, a costituire ideali colonne sonore decadenti ("Feel The Sun", gli strumentali "E Type" e "The Organist Entertains"), ora più uptempo e in apparenza solari ("The Flicker Of A Little Girl" e la title-track).
Sono proprio gli arrangiamenti, talvolta più essenziali che in passato, il vero fiore all'occhiello di questo lavoro: superati gli eccessi orchestrali, ormai un po' stantii, delle ultime prove, infatti, i Tindersticks dimostrano la ritrovata vena con brani ariosi e ispirati, introducendo spesso delle quasi impercettibili novità nel loro sound. L'effetto è evidente in "Boobar", brano lirico e appassionato, lontano mille anni dalla "maniera" e, ancor di più in "All The Love", ove un arrangiamento elegante esalta la voce profonda e intensa di Staples, affiancandole quella angelica di una misteriosa Suzanne.
Ma è in generale, lungo tutto il corso dell'album, che la poetica dei Tindersticks sembra aver recuperato un'ispirazione capace di suscitare moti dell'animo, con quel disincanto che fa guardare quasi con distacco gli inestricabili tormenti del cuore. Ed è ancora lì che mirano i Tindersticks, come esemplificato dal testo della title track ("First carve is the skin/ the second is the muscle/ there's crack of the bone/ and here's at your heart"), e dalle tante ottime ballate che, attraverso melodie curatissime ed efficaci, confermano Staples quale il prefetto interprete di una sensibilità romantica e dal fascino oscuro.
La sua profondità vocale, unita alla ritrovata lucidità melodica che anima piccole perle come "Yesterday Tomorrows", "The Other Side Of The World" e "Mother Dear", non riuscirà a eguagliare il fascino dei primi due, indimenticabili, album della band, tuttavia The Hungry Saw può essere salutato come la più incisiva tra le ultime prove discografiche dei Tindersticks.

L'inattesa reunion trova un pronto seguito, nel volgere di meno di due anni, in Falling Down A Mountain, che, a differenza dell'ispirato predecessore, sembra invece rappresentare una sorta di ritorno nei ranghi, tanto a livello di scrittura quanto di respiro armonico.
Registrato tra la Francia e Bruxelles, Falling Down A Mountain passa ancora in rassegna con gusto nostalgico tutte le classiche atmosfere dei Tindersticks, tuttavia sembra che nell'elaborazione del lavoro l'attenzione della band si sia concentrata più sulla cornice sonora dei brani che non sugli elementi essenziali degli stessi.
Si ha come l'impressione che la rinnovata voglia di lavorare insieme, dopo un album scritto e suonato sull'onda dell'emotività, abbia portato i Tindersticks a concentrarsi troppo sui suoni, trascurando la scrittura: benché, infatti, la prolungata title track provi a riecheggiare in ardite tinte jazzy le torbide atmosfere dei tempi dell'esordio, e un brano come "Black Smoke" si distacchi in maniera piuttosto evidente dalla precedente produzione, anche gli spunti melodici più decisi e riusciti - nella delicata "Keep You Beautiful" o nella desolata ballata pianistica "Factory Girls"- restano in prevalenza circoscritti ad accenni, conditi dal consueto catalogo di arrangiamenti orchestrali carichi di pathos e malinconia.
Anche la voce di Stuart Staples, elemento da sempre caratterizzante il suono dei Tindersticks, che nel tempo è andata ad arricchirsi di sfumature e intensità, è adesso coinvolta in un pallido processo di recupero e reinvenzione del passato, che nemmeno il rituale duetto ("Peanuts", che vede Staples accanto alla rediviva cantautrice canadese Mary Margaret O'Hara) riesce a risollevare.
Alla luce di Falling Down A Mountain, si direbbe che i Tindersticks abbiano di nuovo intrapreso l'incolore direzione evidenziata nei dischi anteriori al momentaneo scioglimento, nonostante anche in questo lavoro non manchino momenti apprezzabili, affidati soprattutto alla consumata esperienza con la quale la band riecheggia spunti e sfumature espressive che la hanno resa celebre.

La canadese Constellation accoglie nel suo regno lunare The Something Rain (2012), terzo disco dopo la reunion del 2008, mentre, nel 2011, è uscita una raccolta contenente tutte le colonne sonore con le quali i Tindersticks hanno impreziosito, nel corso degli anni, il cinema della francese Claire Denis, Claire Denis Film Scores 1996-2009.
Questa volta l'oscillare tra notte e giorno cede il passo a un'intensa a-temporalità emozionale, nella quale la tentazione di fluttuare è equidistante, benché le apparenze, dal banale concetto di "musica da sottofondo". Come rinnovata abitudine della band, l'album si apre con l'intro spoken "Chocolate", che, per poco più di nove, avvolgenti minuti, riprende "My Sister", traccia contenuta in Tindersticks II, il post-esordio del 1995. Introdotto da un coro soul, il baritono di Staples entra con la solita, infinita, ammaliante grazia, in "Show Me Everything", traccia che, dall'essenzialità strumentale dell'incipit, va aprendosi agli altri strumenti, assecondando la mutevolezza del mood staplesiano, sempre più dolcemente deciso nel suo declamare "show me everything". Canzone d'amore e d'ombra, sofferta tensione tra eros e thanatos, è "Medicine", anelito ricamato dal violino fragile, che richiama alla memoria l'immagine di un Cohen più direttamente coinvolto nello spasmo d'amore. "This Fire of Autumn", folk elettronico, incede come danza moderatamente sincopata di foglie agonizzanti, in una dialettica palpitante ed elegantemente tesa, e la tentazione dell'elettronica torna in "Frozen", vortex sonoro à-la Portishead, alveare oscuro in cui perdersi seguendo la traccia della voce di uno Staples meravigliosamente su di giri.
C'è spazio anche per le ballate: dal solipsismo desolato e sussurrato di "A Night to Still", al languore sensuale di "Come Inside", una sorta di più pacificata "My Oblivion", in un pop orchestrale nel quale il crooner torna a giocare tutte le sue armi di seduzioni, rendendo vana qualsiasi possibilità d'opporgli resistenza. "Slippin' Shoes", con il suo impianto da rumba mitteleuropea, interrompe momentaneamente l'umbratilità che, come dna poetico della band, pervade l'intero album, con una sezione di fiati solare e intrigante. La chiusura è uno strumentale, delicato, cinematico canto delle sirene d'aria à-la Dirty Three ("Goodbye Joe").
L'album, registrato tra il maggio 2010 e l'agosto 2011, nasce da un'istanza, speciale, come recano le note compilate dallo stesso Stuart Staples: "At the albums heart lies the memory of the people we have lost in these last two years, but we were in no mood to be maudlin. It's to them. But it's for us. We are still drinking, laughing, crying, fighting, fucking, making our music. They wouldn't have wanted it any other way". La perdita, lo smarrimento, l'amore, la morte tornano a indossare uno degli abiti più dignitosi ed eleganti, nella storia del pop d'autore degli ultimi vent'anni, e il concetto di esistenza riprende fiato, per svelarsi in tutto il suo fascino e la sua inquietudine.

Nel 2013 la band fa uscire Across Six Leap Years, che recupera alcune tracce neanche troppo smarrite, registrate presso lo Studio 2 di Abbey Road.
Chi ha amato "Lucky Dog Recordings", primo album solista di Staples, uscito nel 2005, apprezzerà l'eleganza appena più fragile conferita alla ballata d'apertura, "Friday Night", una vertiginosa rumba al rallentatore ottima per sonorizzare bellezze e dannazioni, proseguendo, poi, con l'ispirata indolenza di "Marseilles Sunshine", epurata dal timor panico della registrazione originale, per cedere il passo alla grazia degli archi. Andando a ritroso sino al 2001, si arriva a "Dying Slowly", crocevia di grandi citazioni: dal songwriting del più luminoso Cohen alla voluttà affettata di un Signor Ferry, con l'aggiunta di un più presente pianoforte teso a limare qualche asperità.
Sul finale, una breve parentesi sulla notte e i suoi demoni, con una doppia citazione dal secondo album omonimo del 1995: "Sleepy Song", cantata con tono meno dimesso, come ad aver imparato a camminare con maggior destrezza tra le tenebre, e "A Night In", meno appariscente di un'intoccabile ed eternamente bellissima "No More Affairs" - scelta scontata - ma psicodramma altrettanto intenso, ai limiti di una visionaria, edulcorata poetica à-la Lee Hazlewood, che, produttore del primo album, nel 1993, pose un irripetibile sigillo alla band.
In chiusura, "What Are You Fighting For?", il prezioso 7" in edizione limitata del 2008, riprende vita in un mutevole tappeto di foglie che, dall'autunno dell'originale, cambia colore nella dolcezza di un'avvolgente primavera. Sulla soglia del disincanto, in un tempo in cui l'Amore diventa un'ossessione vacua e patinata, Stuart A. Staples e i suoi compagni d'inquietudine ci riportano al miraggio di una densità sussurrata, di un'attrazione magnetica, di una complessità vertiginosa, nella penombra di un eterno, irrinunciabile antagonismo dei sensi e dei sessi.

Rarefatto, romantico, dolente, elegante, notturno, ma soprattutto cinematografico, sì, questo potrebbe essere l'aggettivo giusto per classificare The Waiting Room, il lavoro targato 2016 dei Tindersticks. Cinematografico non solo per una questione di suoni, ma perché nella deluxe edition ogni traccia è accompagnata da un cortometraggio affidato a un brillante regista, fra i quali spicca il nome di Claire Denis, nota cineasta francese per la quale la band ha spesso prodotto colonne sonore (alcuni estratti vennero raccolti nell'antologia "Claire Denis Film Scores 1996-2009"). Soffermandoci sui contenuti musicali, The Waiting Room si presenta come una raccolta di undici composizioni dal notevolissimo impatto emotivo, perfette per spingere con grande ambizione il chamber pop della band guidata da Stuart Staples verso molteplici (e mai troppo scontate) direzioni. Si passa dai rigogliosi arrangiamenti jazzy style di "Help Yourself" al sofferto minimalismo per soli voce e synth della title track, dai trasognati landscape strumentali di "Follow Me" (cover di una traccia tratta dalla colonna sonora del film "Gli ammutinati del Bounty"), "This Fear Of Emptiness" e "Planting Holes" alla commovente ballata lunare "How We Entered", che unisce idealmente Nick Cave e Michael Stipe in una sola persona, fino alla iperperfezione formale del pop d'autore che caratterizza "Were We Once Lovers", "Second Chance Man" e "Like Only Lovers Can".
Ma non è finita qui: la "sala d'attesa" dei Tindersticks viene arricchita dalla presenza di due voci femminili in grado di fornire un ulteriore plus al disco, grazie a due duetti decisamente riusciti. Il primo, "Hey Lucinda", è particolarmente sentito in quanto vede protagonista la voce di Lhasa de Sela, scomparsa nel 2010 per un male incurabile, e in passato già collaboratrice occasionale della formazione inglese. La seconda collaborazione, decisamente più hype, è con Jehnny Beth in "We Are Dreamers!": la leader delle quotatissime Savages, in campo proprio in questi giorni con il fulminante "Adore Life", è il perfetto contraltare alla drammatica esecuzione di Stuart Staples.
Forte di una pazzesca personalità, completamente privo di cadute di tono, dal livello emozionale tremendamente alto, The Waiting Room si impone come disco di indiscutibile caratura. Non credo rischieremmo di prendere un clamoroso abbaglio classificandolo non solo come uno dei capolavori dei Tindersticks (al limite a pari merito con l'esordio del 1993), ma persino come uno dei migliori album di chamber-pop di tutti i tempi.

Il 15 novembre 2019 è la volta di No Treasure But Hope, dieci nuove tracce di poetica malinconia, noir, cinematiche, notturne e meravigliosamente penetranti. Il piatto forte è "Trees Fall", con quel sapore di antico, quegli archi, e le melodie che prendono il sopravvento lentamente, in un crescendo che non rimuove, bensì alimenta, il retrogusto dolceamaro. Stewart A. Staples ci ha messo tre anni per dare un seguito a uno dei migliori passi della sua discografia. Nel frattempo ha intrapreso un paio di progetti in solitaria, per poi, quando si è ritrovato con le canzoni giuste, ritornare full band. Il suono, ma anche i movimenti vocali, guardano sempre a Nick Cave e ai Lambchop, ma oggi tutto è inconfondibilmente Tindersticks. Un immaginario crepuscolare nel quale la tristezza si può raccogliere a piene mani, fra spazi aperti e colonne sonore per film immaginari.
No Treasure But Hope si pone in linea con l'estetica consolidata del gruppo. Nonostante sia stato scritto quasi interamente sull'isola greca di Itaca (dove Staples ha posto dimora da qualche tempo), il sole e il mare ellenici non hanno scalfito la poetica esistenzialista, il malessere interiore. Tesori e speranze si concretizzano fra le aspirazioni soul di "Pinky In The Daylight", le morbidezze al piano di "Carousel", le preziose rotondità di "Take Care In Your Dreams" e "Tough Love". Quanta bellezza, quanta poesia. Da restarci stecchiti...

Stuart Staples lo ha ribadito diverse volte, tra interviste e comunicati stampa, che Distractions (City Slang, 2021) non è un pandemic album, che non si tratta di un disco di reazione al lockdown. Incalzato, ha poi concesso che però, per forza di cose, le contingenze hanno inevitabilmente condizionato il processo creativo, i toni cupi delle canzoni, l'ossessività dei groove. Il quattordicesimo disco in studio dei Tindersticks è difatti un album scurissimo. Ai colori pastello della copertina di No Treasure But Hope del 2019 si sostituisce un artwork in un elegante blu notte; alla speranza del vecchio titolo il bisogno di distrarsi, di guardare altrove.
Dei sette brani in scaletta di Distractions, ben tre sono cover. Viene quindi facile tracciare un parallelo con "This (Is What I Wanted To Tell You)" dell'anno scorso, disco interamente composto di cover firmato dai colleghi chamber-pop d'oltreoceano Lambchop. Come è facile immaginare e come è giusto aspettarsi, le cover dei Tindersticks sono tutt'altro che semplici rifacimenti degli originali. Staples, Boulter, Fraser e Harvin estrapolano la polpa dei brani altrui e la adattano nuove eleganti vesti. "A Man Needs A Maid" di Neil Young diventa una ballad a lume di candela con conciliante controcanto femminile, mentre a "Lady With The Braid" di Dory Previn viene affibbiato un ritmo sintetico e scheletrici rintocchi sulle tastiere. Tra i rifacimenti svetta però "You'll Have To Scream Louder" dei Television Personalities, con le staffilate politiche del brano arrotolate su di un ritmo tormentoso che avrebbe stuzzicato la fantasia di Andrew Weatherall (quanto ci manca!) per un remix indietronico da ballare in diretta su Zoom.
Eccettuando i florilegi orchestrali che sbocciano sul finire di "I Imagine You", anche tutti i brani originali sono diroccati e scheletrici, arrangiati lasciando visibili le impalcature, gli ossi. "Man Alone (Can't Stop The Fadin')" è una lunga piece di indietronica gelida, che lascia echeggiare i singhiozzi psicotici di Staples nel vuoto della sua personale Frankie Teardrop; "Tue-Moi" una scarna piano ballad in francese ferita dalla tragedia del Bataclan. Chiude una valle di lacrime e tuxedo di oltre nove minuti e mezzo intitolata "The Bough Bends", con Staples a cantare in un cono d'ombra e il resto della ciurma a disegnargli il vuoto intorno con lunghe lamentose note e la ritmica dissolta.

Alla fugacità delle mode alternative, agli eccessi e alla voglia di impressionare ad ogni costo, i Tindersticks oppongono la sobria ricercatezza di un chamber-pop fuori dal tempo e l'ordinarietà solo apparente di una fragile autenticità emozionale, che trova quanto mai compiuta rappresentazione in un viaggio romantico nei sotterranei dell'animo umano, tradotto in canzoni pervase da grande classe, intensità e non comune senso della melodia.

Contributi di Francesco Amoroso ("The Hungry Saw", "Falling Down A Mountain"), Mimma Schirosi ("The Something Rain", "Across Six Leap Years"), Claudio Lancia ("The Waiting Room", "No Treasure But Hope"), Michele Corrado ("Distractions")

Tindersticks

Discografia

Tindersticks (Bar/None, 1993)

9

Tindersticks II (Polygram, 1995)

8

Amsterdam February '94 (1994)

The Bloomsbury Theatre (This Way Up, 1995)

Nénette Et Boni (soundtrack, This Way Up, 1996)

6,5

Curtains (London/PGD, 1997)

6

Simple Pleasure (Quicksilver/Island, 1999)

5

Can Our Love... (Beggars Banquet, 2001)

6,5

Trouble Every Day (soundtrack, Beggars Banquet, 2001)

7

Waiting For The Moon (Beggars Banquet, 2003)

5

Working For The Man: 1992-1999 (antologia, Island, 2004)

The Hungry Saw (Beggars Banquet, 2008)

7,5

Falling Down A Mountain (4AD, 2010)

6

Claire Denis Film Scores 1996-2009 (antologia, Constellation, 2011)
The Something Rain (Constellation, 2012)

7,5

Across Six Leap Years (City Slang, 2013)

7,5

The Waiting Room (City Slang, 2016)

8

No Treasure But Hope (City Slang, 2019)

7

Distractions (City Slang, 2021)7,5
Past Imperfect: The Best Of TINDERSTICKS 92-21 (antologia, City Slang, 2022)
Pietra miliare
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